IL PAGANESIMO POLITEISTA E LA STREGONERIA INCONTRANO IL BUDDHISMO!



COMMENTO ALLE QUATTRO NOBILI VERITA' BUDDISTE!

Dal MAHASATIPATTHANASUTTANTA

(le basi della consapevolezza)

Di

Claudio Simeoni

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PRIMA NOBILE VERTA'


La verità della sofferenza: il mondo è pieno di sofferenza. La
vita che
non è libera da passione e desiderio è sempre carica di sofferenza,
perché nel mondo tutto è temporaneo e imperfetto.



Prima Parte


La verità della sofferenza: il mondo è pieno di sofferenza.


Per iniziare a commentare le verità Buddiste è necessario che noi chiariamo la posizione di chi afferma nel mondo. La dichiarazione di una verità o di una proposizione che assume un valore oggettivo è sempre affermata da un soggetto che la manifesta. In questo caso Buddha. Si tratta di stabilire se quanto affermato è una affermazione oggettiva e immodificabile, in quel caso assume il connotato di VERITA', se è solo una constatazione di una situazione, in quel caso assume la caratteristica di un'indicazione finalizzata alla modificazione dell'oggettività, o se è una proiezione di una percezione soggettiva della realtà che viene manifestata ed esposta come elemento oggettivo della realtà.

L'affermazione secondo cui IL MONDO E' PIENO DI SOFFERENZA è un dato oggettivo in sé, proprio del mondo e delle sue manifestazioni, è una constatazione di un aspetto del mondo “Nel mondo c'è molta sofferenza!” o è una proiezione soggettiva illusoria sul mondo: “Dal momento che io ho dentro di me molta sofferenza; ne deduco che il mondo è pieno di sofferenza!”.

Ognuno di questi tre modi di individuare la sofferenza nel mondo implicano delle organizzazioni soggettive diverse dell'individuo davanti al mondo. Indicano modi diversi di considerare la sofferenza nel mondo.


La prima cosa che si deve prendere in considerazione è il primo dato: la sofferenza. Che cos'è la sofferenza come espressione nel mondo. La sofferenza è un dato espresso da soggetti che soffrono. I soggetti che soffrono esprimono sofferenza. Di questo prendiamo atto. Se noi ci guardiamo attorno ed osserviamo la nostra vita, c'è indubbiamente un costrizione dei nostri desideri e della soddisfazione dei nostri bisogni che chiamiamo sofferenza, ma c'è anche l'espansione del bisogno e la sua soddisfazione che chiamiamo piacere, ci sono attimi di brivido che chiamiamo felicità, ci sono situazioni che chiamiamo soddisfazione e ci sono rabbie, dolori e scoppi di energia che chiamiamo espressione di volontà.


Se affermo che nella vita c'è dolore e pertanto c'è un patire, sopportare, subire e un tollerare dato un dolersi, un patire, un penare e un tribolare, devo ammettere anche l'esistenza di un attirare, attrarre, deliziare, dilettare, garbare, gradire e soddisfare. Devo ammettere pure l'esistenza di beatitudine, contentezza, delizia, diletto, ebbrezza, euforia, felicità, gaudio, gioia, pienezza, appagamento, estasi, gusto, soddisfazione e voluttà. Devo ammettere pure l'esistenza di situazioni di disgusto, dispiacere, far pena, far pietà, far rivoltare, fare schifo, nauseare, ripugnare ecc.


Dunque, affermo una cosa, ne affermo il contrario e affermo una serie di gradazioni che vanno da quella cosa al suo contrario.

Affermare un assoluto dandogli una connotazione di staticità è il primo errore. Si tratta di un proiettare il proprio stato d'animo su una situazione immaginata partendo dal presupposto che quanto si immagini sia la reale risposta che le persone devono avere a quanto vivono o assistono. L'uomo malato e l'uomo vecchio incontrati dal principe nel romanzo Asvaghosa non rispondono alla loro situazione come il principe immagina che egli avrebbe risposto se fosse stato nella medesima situazione. La risposta immaginata da Buddha, nei confronti di quei dolori, è fatta perché lui quei dolori li immagina, ma non li vive. Vi assiste, ma non ha attraversato le situazioni che hanno portato a trovarsi in quella situazione. Un uomo giovane può aver terrore della vecchiaia e della morte, ma questa risposta non è necessariamente vera per chi ha vissuto l'intera esistenza esprimendo sé stessi. Non necessariamente quella persona è diventata vecchia nel dolore, può essere diventata vecchia nel piacere, può essere diventata vecchia articolando il pensiero astratto ed aver vissuto una vita di passioni. Buddha, nell'Asvaghosa, immagina una situazione di dolore soltanto in contrapposizione alla situazione di piacere nella quale sta vivendo. Ciò che lo terrorizza è la paura di perdere la situazione di piacere nella quale sta vivendo. Una situazione di piacere che è data da una stabilità fisica, da una vigoria che vede sparire sia nell'uomo malato che nel vecchio e che cessa nell'uomo morto.

Da qui possiamo affermare, partendo dalle affermazioni di Asvaghosa, che la vita è piacere interrotto dalla possibilità del dolore. Oppure che il dolore è quanto terrorizza chi vive nel piacere? Molto probabilmente, chi vive di solo piacere fisico ha paura che quel piacere fisico si interrompa o si possa interrompere.

Da qui c'è la contrapposizione fra il terrore che prova il Buddha per la paura di perdere il piacere quando diventa consapevole della possibilità che la malattia lo interrompa. Da qui subentra la decisione di mettere fine al piacere per paura che la malattia, la vecchiaia e la morte vi pongano fine. Il dolore non è dato da ciò che interrompe, ma dal terrore che provoca il POTER ESSERE INTERROTTO. Sembra quasi la volontà di costruire una vita di sacrifici e di sofferenza affinché la morte del corpo fisico possa porre fine ad una vita di dolore anziché provocare dolore ponendo fine ad una vita di piacere.


La sofferenza c'è perché c'è uno stato di vita che definiamo in maniera diversa. Proprio perché c'è un modo di vivere che chiamiamo in maniera diversa possiamo, al suo interno, distinguere la sofferenza. Da qui l'affermazione che il mondo è pieno di sofferenza è possibile soltanto perché riconosciamo che il mondo è pieno di molte altre cose che vengono interrotte dal soffrire o dal terrore che si possa soffrire.


La proposizione Buddista, a questo punto, non è fatta come oggetto affermato in sé: la sofferenza è! Non è oggetto in sé, non è verità oggettiva. Il mondo è pieno di sofferenza, ma la sofferenza è parte del mondo non è la totalità del mondo. Non è fatta nemmeno come analisi di quanto produce la sofferenza che diventa definizione di uno stato d'animo soggettivo quale consapevolezza del terrore della vecchiaia, delle malattie e della morte. Diventa soltanto una proiezione di un'illusione soggettiva sul mondo: io ho il terrore della malattia, della morte e della vecchiaia e dunque quel terrore è oggetto in sé e riempie il mondo. Il mondo viene ridotto alla misura psicologica del soggetto che sul mondo proietta le proprie malattie psichiche! Anziché riconoscerne la realtà come manifestazione di sé stesso, immagina che appartengano al mondo e il mondo le proietti imponendole su tutti i soggetti.


Seconda Parte


La vita che non è libera da passione e desiderio è sempre carica di sofferenza,
perché nel mondo tutto è temporaneo e imperfetto.


La seconda proposizione vuole dare la soluzione della prima proposizione. In questa proposizione c'è la relazione fra la vita e la sofferenza quale prodotto della manifestazione della passione e del desiderio in un mondo temporaneo e imperfetto.

Prendiamo atto che noi parliamo della vita perché stiamo vivendo. Parliamo in questo modo della vita perché in questo modo stiamo vivendo. Ci sono solo due grandi certezze nel mondo, la nascita del corpo fisico e la morte del corpo fisico. Fra queste due certezze tutta la nostra vita è trasformazione continua. Ed è trasformazione continua, comunque noi viviamo o decidiamo di vivere. Questo anche quando il Buddha, rifiutando le donne nel giardino, termina il suo discorso affermando: “Le donne hanno condotto a turbamento molti veggenti come costoro (ne ha appena fatto un elenco): quanto più dunque il figlio del re che è giovane e innocente” “Le cose, essendo così, adoperatevi senza riserve affinché la fortuna della real casa non si muti.” “Fanciulla qualsiasi è quella che conquista un uomo pari a sé; ma femmina è chi rapisce l'affetto di persone di basso e di alto rango”. Il rifiuto, di per sé, non elimina la trasformazione del soggetto (Buddha) che lo fa, semplicemente da' una direzione diversa alla sua trasformazione e, in questo caso, perfettamente in linea col terrore per la vecchiaia, la morte e il dolore che lo spaventa.

La perfezione che egli non vede nel mondo è il prodotto della propria immaginazione. Il mondo, per quello che è, è perfetto sul piano del TEMPO, non lo è sul piano dello SPAZIO in quanto la sua rappresentazione non è quella che noi vorremmo che fosse se su quella rappresentazione noi proiettiamo i nostri desideri e le nostre aspettative. La temporaneità degli oggetti nell'esistente è perfezione dell'esistente. La perfezione dell'esistente si manifesta nella sua trasformazione continua, negli adattamenti e nelle strategie che i singoli Esseri costruiscono per trasformarsi e adattarsi.

Quando una persona vive su un solo piano concettuale pensa sé stessa come manifestazione statica, non come un prodotto di trasformazioni. Il concetto che sviluppa Buddha sul dolore è un concetto che si manifesta dopo che qualche cosa ha interrotto la linearità della sua esistenza. La sua esistenza si svolge piatta all'interno del piacere e protetta all'interno del palazzo. La visione del vecchio all'esterno modifica questa linearità: per la prima volta egli scopre di essere stato un bambino e che sarà un vecchio.

La sua vita nel piacere non gli permette di realizzare che la sua vita non agisce su un piano spaziale, ma la vita sul piano spaziale è limitata dalle trasformazioni del tempo. E sono le trasformazioni del tempo che gli incutono terrore. Ciò che è perfezione manifestato dall'esistenza per lui diventa imperfezione in quanto temporaneo. Nella temporaneità del quadro descritto sta la perfezione della nostra vita. Perché il quadro descritto è subito vecchio rispetto al nuovo quadro che andiamo a dipingere con le nostre scelte e le nostre azioni. E questo attimo dopo attimo. In questo processo noi modifichiamo noi stessi e in questo sta la perfezione della vita. Una percezione della vita che ha i suoi motori proprio nei desideri e nelle passioni che proprio perché si esprimono nell'individuo possono, ripeto possono, portare l'individuo a soffrire. Ma sicuramente lo spingono ad una continua modificazione. La malattia, l'invecchiamento e la morte assalgono l'individuo anche se l'individuo si sottrae dai desideri e dalle passioni o vi rinuncia per desideri e passioni ulteriori o diverse (compresa l'auto distruzione). Il desiderio di rinunciare ai desideri e la passione di rinunciare alle passioni è desiderio e passione essa stessa. Non è desiderio e passione, è costrizione: è auto imposizione del soggetto al dolore e tutto per la paura di fuggire al dolore!

Se Buddha è diventato consapevole che esistono desideri e passioni e che pertanto esiste anche dolore è perché il desiderio e le passioni lo hanno costruito portandolo alla consapevolezza. Qualunque tipo di desiderio e di passione egli abbia vissuto lo ha reso consapevole.

Dal momento che la vita e la morte del corpo fisico sono gli estremi della nostra esistenza appare chiaro che quegli estremi, inevitabili, sono raggiungibili attraverso un certo numero di trasformazioni. Quelle trasformazioni portano il nome di contraddizioni! Le contraddizioni oppongono il soggetto, ogni soggetto che riconosce sé stesso, in relazione dialettica col mondo nel quale vive. La soluzione di quelle relazioni comportano delle trasformazioni del soggetto (e del mondo). Che molte relazioni siano date dalla passione, dai desideri, dai bisogni e da quant'altro non c'è dubbio, ma quei motori sono quanto trasformano il soggetto nei mutamenti che vanno dalla nascita del corpo fisico alla morte del corpo fisico. Che nella soluzione delle contraddizioni il soggetto possa provare dolore, felicità, soddisfazione, angoscia, piacere ecc. è poco importante per la vita, è importante per il soggetto che, preso atto di questo, deve attrezzarsi per affrontare la meglio le contraddizioni della vita stessa.


Se io affermo che la vita è dolore, faccio della mia vita un processo di accettazione del dolore. Se io affermo che il dolore è una possibilità che si manifesti nella mia vita, mi attrezzo affinché le mie scelte vadano a buon fine e mi evitino il dolore. D'altronde, io sono solo un attore della mia vita. Se io non mi attrezzo per affrontare al meglio la mia vita, il mondo e le Coscienze di Sé del mondo si attrezzano per affrontare al meglio la loro vita. Se questo attrezzarsi lo fa una specie di virus dentro di me, ho poco da rinunciare ai desideri e alle passioni, gli Esseri Virus non rinunciano alle loro passioni e io mi prendo un bell'attacco di polmonite. E' nell'ordine delle cose, ma allora la malattia non è allontanata attraverso la rinuncia ai desideri e alle passioni, ma è favorita dalla mia rinuncia ai desideri e alle passioni che si traduce in rinuncia ad essere attore e protagonista della mia vita! Io non copro più i mutamenti che vanno dalla nascita del corpo fisico alla morte dello stesso, ma mi limito a seguire il flusso degli eventi ed a subire quanto arriva in quanto il mondo e gli enti che lo compongono non hanno rinunciato alle stesse cose a cui io ho rinunciato e, alla fine, danneggio la specie cui appartengo perché le sottraggo nous. Attraverso la mia rinuncia ai desideri e alle passioni sottraggo la mia intelligenza e il mio contributo evolutivo alla mia specie.


Preferisco affermare che la vita è sfida. Il desiderio, il piacere e le passioni li oriento sugli oggetti che maggiormente tentano di svilupparmi e di costruirmi senza per questo impormi il dolore alla loro rinuncia. So perfettamente che la mia vita ha avuto un inizio ed avrà un fine, ma proprio per questo armo di strategia le mie scelte affinché siano fatte al meglio all'interno della mia vita. Affinché siano utili alla specie cui appartengo.

Se io concentro me stesso sulla staticità della mia esistenza, ogni mutamento è causa di dolore perché io quel mutamento lo subisco, come un destino, e mi sento impotente a sottrarmici perché ho rinunciato ad essere attore della e nella mia vita. Allora sì tutto è dolore. Ma il dolore è manifestazione della mia rinuncia. Il dolore è assistere che il mondo non mi imita rinunciando ad essere attore ed io sono costretto a chiedere ai servi di servirmi mentre i servi costruiscono la loro vita e il loro servirmi non è funzionale al mio benessere, ma è l'unico modo che hanno per procurarsi il loro benessere. E dunque le donne non sono là per il benessere della real casa, ma sono là perché quello è il loro unico modo di vivere quando probabilmente sono infinitamente più sagge di un Buddha che si rifiuta a loro mentre, loro, sanno fare bene il loro lavoro e sono attrici della loro vita. Alla morte del corpo fisico, per chi ha rinunciato ai propri desideri e alle proprie passioni imponendosi dolore, non resta nulla della propria vita. Quelle donne, che hanno vissuto in maniera strategica adattandosi al mondo e alle condizioni nelle quali sono nate, usando le loro arti, si sono trasformate nell'eternità. Certo, si ammira il Buddha, ma cosa ha fatto? E' figlio del Potere di Avere, è ciò che è perché è figlio di un re: perché non ammirare il Potere di quelle donne che non avendo nulla sanno vivere strategicamente la loro vita? Sanno esprimere un Potere che Buddha non è in grado di esprimere? Falliranno quelle donne? Il Buddha le invita a mettersi al servizio della casa reale! Le invita a rinunciare di mettersi al servizio di sé stesse per servire qualcun altro dal quale deriva il suo Potere di Avere al quale vuole rinunciare, ma solo come esercizio, non come rappresentazione! E' parte della vita il fallire, come è parte della vita la felicità, la passione, il dolore e la tristezza: MA E' PARTE DELLA VITA! Non rappresentano la vita in sé stessa!

Si esce dalla vagina della propria madre per sfida, si vive per sfida e si muore per sfida! In questa sfida è compresa la felicità e il dolore. Né l'uno né l'altro saranno mai padroni della vita.



SECONDA NOBILE VERITA'


La verità della causa della sofferenza: la causa della sofferenza
è
senza dubbio costituita dai desideri del corpo e dalle illusioni della
mente.


La causa della sofferenza, su cui Buddha punta la sua attenzione, è la vita! Chiamiamo vita quella che viene attraversata da un corpo fisico dalla nascita dello stesso alla sua morte. Proprio perché esiste un corpo fisico, esiste la sua capacità di produrre descrizioni e pertanto le illusioni della descrizione ed esiste la sua capacità di esprimere desideri. Senza un corpo che la esprime non esiste mente e non esistono desideri, bisogni e tensioni. Non esiste mente al di fuori di un corpo e non esistono desideri e passioni che non siano relative alla qualità e alle determinazioni specifiche di un corpo. Quando parlo di un corpo luminoso tendo a qualificare la differenza fra quello che consideriamo un corpo fisico e il corpo di energia che viene partorito. Anche il corpo luminoso esprime la sua mente e anche il corpo luminoso esprime i suoi bisogni e le sue tensioni.

La mente, proprio perché affronta delle contraddizioni fra sé stessa e il mondo in cui opera, descrive una parte del mondo e su un'altra parte del mondo proietta la propria immaginazione. Proiettare la propria immaginazione è fonte della propria illusione. Questo è comunque inevitabile in quanto la mente ritaglia una parte dell'immenso in cui agisce e descrive. Anche quando la mente cessa di essere rappresentata dalla ragione e si apre all'intuizione rinunciando alla parola, quale elemento aprioristico dell'azione, comunque l'intuizione nasce dal soggetto quale prodotto della propria specie e la conoscenza della specie di cui il soggetto è manifestazione è solo un'infima parte dell'universo. Pertanto, anche cessando la ragione come capacità descrittiva del soggetto e facendo uscire soltanto l'intuizione è inevitabile che l'intuizione, quando deve muoversi in un terreno nel quale è priva di esperienza, agisca per tentativi fintanto che non accumula un numero sufficiente di dati, di energia e di tensione attraverso le quali esprimersi. Quei tentativi, sono delle forme illusorie perché l'esperienza che ne ricava l'intuizione è comunque carica di aspettative, anche se queste sono relative alle tensioni e al loro fluire e non alla descrizione.


Fintanto che noi abbiamo un corpo, qualunque corpo abbiamo, questo è manifestazione del dio che siamo. Proprio perché è manifestazione del dio che siamo è portatore di tensioni, bisogni e desideri che chiedono di essere seguiti ed espressi. Queste tensioni e questi desideri costringono il corpo ad organizzarsi in funzione della direzione in cui spingono e degli obiettivi che devono raggiungere. Proprio questa spinta costringe il soggetto a modificarsi. Attraverso l'uso della propria volontà il soggetto può variare la qualità delle tensioni, dei bisogni e dei desideri, ma può annullarli soltanto in un modo: annientando, attraverso il suicidio, la propria vita fisica. Noi siamo il prodotto della nostra fisicità. Noi siamo il divenuto di adattamenti espressi dalla nostra specie proprio seguendo le spinte dei suoi desideri e dei suoi bisogni. Le strategie messe in atto dalla nostra specie sono state formulate come risposta ai nostri bisogni, ai nostri desideri e alle nostre passioni. Noi siamo quello che siamo perché la nostra specie ha saputo adattarsi al meglio seguendo i propri desideri e le proprie passioni. La repressione ed il controllo di queste passioni permettono il controllo degli Esseri Umani. Pertanto, se da un lato c'è la necessità di sottrarsi ad un controllo esterno, dall'altro c'è la necessità di continuare la nostra linea evolutiva seguendo i nostri desideri e le nostre passioni. A noi non resta altro che imporre una DIREZIONE ai nostri desideri e alle nostre passioni. La direzione che sia maggiormente funzionale alla nostra crescita e trasformazione anche attraverso la modificazione della qualità dei nostri bisogni, dei nostri desideri e delle nostre passioni.


Il discorso sulla direzione è accennato nell'Asvaghosa dove l'appagamento dei desideri non avviene attraverso il possesso. Dice il Buddha nel canto XI “Anche se si sono impadroniti della terra, che è cinta dal mare, desiderano conquistare l'altra sponda del vasto oceano: gli uomini non si soddisfano di desideri, così come l'oceano dell'acqua che vi cade.” Si tratta di affermare che ciò che si desidera reca soddisfazione. Ciò che si desidera può non recare soddisfazione all'interno del concetto del Potere di Avere. Un conto è possedere i mezzi con i quali il soggetto opera nel mondo e un altro conto è che un soggetto operi nel mondo per impossessarsi. Il desiderare dei mezzi non porta alla soddisfazione o all'appagamento, ma ci mette nelle migliori condizioni per agire. L'agire per impossessarci di qualche cosa non appaga il nostro bisogno in quanto il bisogno, semmai, è appagato dall'oggetto di cui ci impossessiamo, spesso un altro Essere Umano. Se la direzione del desiderio, di cui parla Buddha, è quella del desiderio che si soddisfa mediante il possesso, è solo una parte del discorso. Diverso è il desiderio che si soddisfa mediante le relazioni nel mondo e la dilatazione dell'individuo nel mondo che lo porta ad ampliare la sua conoscenza e la sua consapevolezza. Conoscenza e consapevolezza che viene modificata proprio attrezzandosi per rispondere ai propri bisogni e ai propri desideri. La DIREZIONE in cui si agisce porta alla soddisfazione del desiderio e del bisogno, il potere che si esercita per farlo porta all'appagamento. Solo che l'appagamento è base per altri desideri e altri bisogni coprendo tutto lo spazio dei mutamenti che va dalla nascita del corpo fisico alla morte dello stesso. Non esiste appagamento di un bisogno o cessazione di un bisogno e fine dei desideri e dei bisogni se non come annientamento e distruzione del soggetto che li esprime.


Cosa provoca DOLORE? L'impotenza, l'incapacità, l'inconsapevolezza nel rispondere ai propri bisogni e ai propri desideri in maniera appagante. Ci rende dolore il vuoto dell'impotenza e il tremore nei confronti dell'immenso che ci circonda e davanti al quale ci sentiamo inadeguati. Ci provoca DOLORE non essere attrezzati per affrontare quanto ci circonda e il pensiero che quanto ci circonda ci supera e ci usa a proprio piacimento senza che noi siamo in grado di farvi fronte. Il DOLORE è quello di non essere degli DEI che manifestano la loro volontà nel mondo. Ecco allora cercare oggetti di possesso con i quali esercitare il nostro dominio su coloro che non si possono difendere. Eccoci allora a riprodurre DOLORE aiutando qualcuno a costruire l'impotenza negli individui davanti all'immenso.


Qualcuno ha lottato contro un Essere Orso e l'Essere Orso gli ha squarciato il petto, ma mentre lottava non provava dolore. Quando la lotta finì il dolore lo pervase, ma dopo pochi giorni era pronto a lottare contro un altro Essere Orso. Quando il Buddha si trova davanti alle rappresentazioni della malattia, della morte e della vecchiaia il dolore che prova è quello della sua impotenza davanti ad essi e allo sconosciuto di cui egli non ha padronanza. Mille elefanti non gli impediscono di diventare vecchio: dunque a cosa gli servono mille elefanti? A costruire delle buone condizioni di vita per sé e per gli altri ed affrontare al meglio la vecchiaia. Ecco che il possesso come fine e rappresentazione del Potere di Avere diventa un possesso come mezzo col quale agire nella quotidianità. Solo come mezzo può aiutare nei confronti della vecchiaia, come fine non serve a nulla.


TERZA NOBILE VERITA'

La verita' della cessazione della sofferenza: se si riesce ad
eliminare
l'attaccamento ai desideri e alle passioni, la sofferenza cessa
automaticamente.



Il concetto di sofferenza, come quello del piacere, è un concetto legata alla ragione nella nostra vita quotidiana. Se noi estremizziamo l'annullamento, dovremmo dire che giungendo al suicidio eliminiamo sia il desiderio che la sofferenza. Affermare che annullare la vita porta ad annullare la sofferenza è un'affermazione lapalissiana, ma l'immaginario arriva a porre dei limiti sulla dannosità nel farlo in quanto l'immaginario, quale prodotto della ragione, è un guardiano di sopravvivenza della ragione. Da un lato il suicidio porta all'eliminazione del desiderio e della sofferenza, ma dall'altro porta anche all'annullamento della ragione che del desiderio e della sofferenza è un prodotto come è un prodotto del piacere, della gioia, della passione ecc.ecc.


L'affermazione Lapalissiana cessa di essere tale se per desideri non intendiamo la necessità di espansione del soggetto e pertanto le tensioni e i desideri che ne conseguono, ma la prigionia del soggetto all'interno del Potere di Avere. Se io affermo che provo dolore perché gli schiavi che ho a disposizione non fanno un buon minestrone e questo danneggia il mio gusto, se il minestrone inizio a farmelo io, entrando in armonia col mio gusto, allora il desiderio viene soddisfatto ed esprime un ulteriore desiderio che va nella direzione di migliorare il minestrone appagamento dopo appagamento. Il problema non sta tanto nel minestrone, ma nei mezzi che adotto per procurarcelo. Da un lato ho la dipendenza da qualcuno che io possiedo e che costringo a fare delle cose per me e dall'altro ho lo sviluppo del mio sapere e della mia conoscenza per giungere alla soddisfazione di un desiderio. L'attaccamento può essere inteso solo come una forma di dipendenza dal mezzo che soddisfa il mio desiderio, non al desiderio stesso.

Ancora una volta, la frase può essere accettata soltanto se ci riferiamo ai mezzi o alle modalità per affrontare i nostri desideri o sulla dipendenza che un mezzo, volto a soddisfare i desideri, ci impone.

Non dal desiderio è la dipendenza che provoca dolore, ma dalla direzione che noi diamo (o siamo costretti a dare) alla soddisfazione del desiderio. Infatti, il desiderio noi lo dobbiamo considerare come un elemento rappresentativo della vita che stiamo vivendo esattamente come la gioia, la passione, il piacere o la tristezza e il dolore che provoca. Il desiderio è rappresentazione della vita e manifestazione nell'oggettività del nostro bisogno di espansione. Se il bisogno di espansione soggettivo, che manifesta il desiderio, viene frustrato perché il desiderio viene appagato mediante il possesso di oggetti e strumenti che comunque servono per possedere altri Esseri Umani, allora possiamo sì avere una soddisfazione del desiderio quale espresso nell'oggettività, ma non soddisfiamo la fonte dalla quale il desiderio viene manifestato. Infatti la fonte della manifestazione del desiderio è il bisogno di espansione di un soggetto che si manifesta, situazione per situazione o senso per senso, in maniera diversa e opportuna in ogni momento della sua esistenza. La soddisfazione del desiderio, pertanto, non deve essere solo soddisfazione della sua rappresentazione nell'oggettività in quanto questa è solo una soddisfazione apparente e momentanea, ma deve ricevere una soddisfazione capace di incidere sul soggetto e di modificarlo soddisfacendo il desiderio fondamentale che è quello dell'espansione del soggetto nell'oggettività nella quale esiste.


Questa in sostanza è la differenza fra chi soddisfa il proprio desiderio mantenendo la soddisfazione dello stesso e riproducendo i desideri momento dopo momento ed espandendo sé stesso nell'oggettività da chi, tenta di soddisfare la rappresentazione del desiderio senza tuttavia giungere alla fonte del desiderio che è la necessità di espansione dell'individuo attraverso la soddisfazione del desiderio e del bisogno.


Non il desiderio è il nostro nemico, ma il modo con cui lo soddisfiamo e le strategie che adottiamo nel farlo, sia nel momento presente della sua rappresentazione sia nella sua espressione strategica che è la manifestazione della necessità di espansione dell'individuo nell'oggettività in cui vive.


E' proprio il cambio di direzione che porta l'individuo a far cessare il dolore. E' proprio la decisione dell'individuo di soddisfare i propri bisogni attraverso la costruzione sistematica di sé stesso che porta a superare la fissità o l'ossessione dell'individuo per la morte, la vecchiaia e la malattia. In altre parole è proprio la crescita dell'individuo attraverso la manifestazione dei propri bisogni e le proprie necessità che porta a staccare l'attenzione dal dolore o, se vogliamo anche dalla ricerca ossessiva del piacere per sé stesso o della felicità per sé stessa. Tutti gli stati d'animo provocati nella vita di un individuo appartengono a varie situazioni che l'individuo affronta, ma non si trasformano in ossessione che portano l'individuo a vivere nella gabbia della loro rappresentazione come assoluto. C'è il dolore? E, allora? C'è il piacere? E allora? A seconda di quello che faccio provo prima l'uno e poi l'altro a seconda di come uso la mia strategia di vita tendo al piacere, ma se incontro il dolore so' che è una possibilità. Lo supero e affronto la vita attraverso nuove strategie. Se conosco solo il possesso, il Potere di Avere, con cui misurare la mia esistenza, allora avrò paura di perdere gli oggetti che qualificano il mio potere. Avrò paura di perdere la mia vigoria fisica, avrò paura di essere malato e fisicamente andicappato, avrò paura di non apparire potente, avrò paura che gli oggetti che possiedo mi siano sottratti, e, infine, avrò paura della morte del corpo fisico perché questa mi priva degli oggetti quali manifestazione del mio potere.

Potere di Essere e Potere di Avere! Questa è la scelta!


QUARTA NOBILE VERITA'


La verità della cessazione della causa delle sofferenza: per
raggiungere
questo livello di distacco da desideri e passioni, è necessario
seguire il
Nobile Ottuplice Sentiero.



Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

Piaz.le Parmesan, 8

30175 Marghera - Venezia

tel.041933185

E-mail claudiosimeoni@libero.it

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