Cod. ISBN 9788891185778
Teoria della Filosofia Aperta - Volume uno
è scorretto parlare di "reato" in cui identificare dei comportamenti, sia individuali che sociali, nelle dinamiche dell'azione dei fatti nelle società.
Chiunque commetta un'azione, che viene normalmente identificata come violazione delle norme giuridiche detta "reato", lo fa sempre in risposta a violazioni di norme sociali che possono sempre identificarsi come reati.
Il "reato", in campo individuale e sociologico, è un'azione di adattamento soggettivo nei confronti di comportamenti soggettivi che violano le regole della società civile al di là che queste regole siano, più o meno, perfettamente interpretate.
Quando nasce l'idea secondo cui un'azione può essere classificata come un "reato"?
Quando una legge sociale viene imposta per definire la sua violazione come un "reato".
Quando questa legge viene imposta noi ci troviamo nella condizione secondo cui c'è la necessità di impedire ad alcune persone di rivendicare qualche cosa che ritengono un loro diritto. Si vuole impedire a delle persone di fare delle azioni che entrano in conflitto con "interessi" di altre persone che hanno la forza per imporre loro di non farle. Questa imposizione, nella società ebrea e cristiana retta dal dio padrone, diventa "legge" che si trasforma in orma morale e viene calata nella struttura psico-emotiva delle persone. Impongono loro di non scaricare la tensione emotiva perché, scaricando la loro tensione emotiva, provocherebbero una variazione di equilibrio sociale fra chi è psicologicamente spinto a fare quell'azione e chi rappresenta interessi che verrebbero lesi da quell'azione.
La legge determina l'azione come reato, ma la legge stessa è un reato nei confronti delle pulsioni di vita delle persone della società quando non regola la veicolazione delle pulsioni individuali nella società.
Nella società attuale tutto il sistema giuridico deriva dalla bibbia e dal meccanismo con cui il dio padrone di ebrei e cristiani rivendica di essere il padrone delle persone:
"Elohim pronunziò tutte queste parole, dicendo:
"lo sono Jahve, Dio tuo, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla casa della schiavitù.
Tu non avrai altri Dèi di fronte a me.
Non ti farai degli idoli, né alcuna immagine di ciò che è nei cieli in alto, o sulla terra in basso, o nelle acque sotto la terra.
Non ti prostrerai davanti a questi idoli, né renderai ad essi un culto: poiché, io, Jahve, Dio tuo, sono un Dio geloso, che punisce l'iniquità dei padri nei figli fino alla terza e quarta generazione di coloro che mi odiano e che mostro misericordia fino alla millesima generazione, per coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai il nome di Jahve, Dio tuo, invano; poiché Jahve non lascerà impunito colui che pronuncia il suo nome invano."
Esodo 20, 1 -7
Tratto dalla bibbia di Bonaventura Mariani ed. Garzanti 1964
L'antico sistema di leggi di Roma è stato modificato in funzione dell'egemonia dello "Stato" sui cittadini con l'avvento di Silla. Con Silla si è cambiata la direzione per cui fare le leggi e con l'avvento di Augusto i diritti dell'imperatore divennero l'oggetto principale della legislazione romana. Questo meccanismo fu rafforzato dai cristiani e dagli imperatori cristiani che hanno calato, mediante l'esercito, l'assolutismo del dio padrone dei cristiani nella struttura emotiva delle persone costruendo una morale sociale antitetica al Mos Maiorum.
Il modello di uomo creato al dio padrone cristiano è il modello che i cristiani considerano naturale. Innaturale, per i cristiani, è non trovare normale essere felici nell'omologarsi al modello di uomo e di comportamento sociale creato ed imposto dal loro dio.
Ogni variazione dell'uomo, sia fisica che psichica, veniva attribuita e spiegata mediante il peccato. Pr questo la donna che partoriva un figlio non perfetto era una peccatrice e doveva vergognarsi dei propri peccati. Per contro, una donna che partoriva un figlio apparentemente sano, doveva guardare e trattare con disprezzo la donna che aveva partorito un figlio con problemi per riaffermare la superiorità della "moralità" contro l'effetto del peccato.
La questione consiste nel punto di vista che si assume per emettere il proprio giudizio.
Vogliamo assumere il punto di vista della persona, che come insieme di persone forma la società, o vogliamo assumere il punto di vista di chi trae i propri interessi dominando una società e, per effetto, ha la necessità di regolare e omologare i comportamenti affinché il suo dominio non sia messo in discussione?
Scrive Durkheim in Le Regole del metodo sociologico ed. Einaudi 2008:
Eccoci in presenza di una conclusione in apparenza paradossale. Infatti non dobbiamo ingannarci: classificare il reato tra i fenomeni della sociologia normale non significa soltanto dire che esso è un fenomeno inevitabile, benché increscioso, dovuto all'incorreggibile cattiveria degli uomini; ma significa anche affermare che esso è un fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni società sana. Questo risultato è a prima vista assai sorprendente, tanto che esso ha sconcertato per lungo tempo anche noi. Tuttavia, una volta dominata questa prima impressione di sorpresa, non è difficile trovare i motivi che spiegano, e nel medesimo tempo confermano, tale normalità. In primo luogo, il reato è normale perché la società che ne fosse esente sarebbe assolutamente impossibile. Dal fatto che il reato è un fenomeno di sociologia normale non consegue che il criminale sia un individuo normalmente costituito dal punto di vista biologico e psicologico, Le due questioni sono indipendenti; e comprenderemo meglio la loro indipendenza quando avremo mostrato più avanti la differenza che intercorre tra i fatti psichici e i fatti sociologici.
Il reato - l'abbiamo dimostrato altrove - consiste in un atto che offende certi sentimenti collettivi, dotati di particolare energia e nettezza. Affinché in una certa società gli atti ritenuti criminali non venissero più commessi, sarebbe necessario che i sentimenti che essi offendono si trovassero in tutte le coscienze individuali senza eccezione, e con il grado di forza sufficiente a frenare i sentimenti contrari. Però, anche supponendo che questa condizione possa effettivamente realizzarsi, non perciò il reato scomparirebbe: esso muterebbe soltanto di forma, perché proprio la causa che inaridirebbe in tal modo le fonti della criminalità ne aprirebbe immediatamente altre. Infatti i sentimenti collettivi, che il diritto penale di un popolo protegge in un determinato momento della sua storia, giungono così a penetrare nelle coscienze che fino allora erano ad essi precluse, o ad aumentare il loro potere dove non ne avevano abbastanza, soltanto a patto di acquistare un'intensità superiore a quella che avevano prima avuto. Occorre che la comunità nel suo insieme ne sia consapevole in modo più vivo, perché essa è l'unica fonte alla quale possono attingere la forza necessaria per imporsi agli individui che prima erano i più refrattari.
Questa posizione del reato in Durkhein e, guarda caso, è la stessa definizione di peccato che ne dà la chiesa cattolica:
1849 - Il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all'amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la natura dell'uomo e attenta alla solidarietà umana. è stato definito «una parola, un atto o un desiderio contrari alla legge eterna».
1850 - Il peccato è un'offesa a Dio: «Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto» (Sal 51,6). Il peccato si erge contro l'amore di Dio per noi e allontana da esso i nostri cuori. Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare «come Dio» (Gn 3,5), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato pertanto è «amore di sé fino al disprezzo di Dio». Per tale orgogliosa esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all'obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza."
Tratto da Catechismo della chiesa cattolica 1994
Il reato, come offesa alla collettività è un concetto proprio della bibbia di ebrei e cristiani che le Costituzioni Occidentali hanno rimosso pur permanendo nella mentalità dei magistrati che tendono a sostituire il concetto di peccato al concetto di reato giuridicamente determinato: commettendo tutti i crimini, i reati, che nel far questo, comporta.
Facciamo un esempio di reato e consideriamo il reato di bestemmia. Quel comune "Porco dio" o "Dio boia" che spesso si sente proferire in vari ambiti della società civile. La legge, fino a poco tempo fa, puniva tale reato con la prigione. Poi con un'ammenda. Oggi, anche se si continua a minacciare le persone affinché non usino tali espressioni, va da sé che chi ha commesso reati gravi contro i cittadini è proprio quel dio che, anche se indicato con un nome comune viene identificato comunemente col dio dei cristiani ed è responsabile di delitti che la legge punisce con l'ergastolo. Un dio boia perché la sua azione è retta dal genocidio e un dio porco (senso dispregiativo, senza riferimento all'essere maiale) perché non solo si arroga il diritto di macellare le persone, ma pretende un'impunibilità che non è concessa a nessun cittadino. Inoltre, la sua azione di devastazione sociale persevera ancor oggi dal momento che i suoi seguaci impongono tale dio con una violenza spaventosa alla struttura psico-emotiva delle persone. Chi commette delitti, spesso nelle vesti delle Istituzioni, lo fa identificandosi con questo criminale.
Dove sta il reato?
Sta nell'azione del dio degli ebrei e dei cristiani, non nelle parole di chi offeso lo accusa di vigliaccheria e di ingiustizia apostrofandolo come dio boia o porco dio.
Chi è che si offende perché qualcuno chiama il dio dei cristiani, dio boia, o porco dio? Coloro che usano l'immagine di un criminale assassino, ben descritto nella bibbia, per violentare la struttura psichica delle persone, dei bambini in particolare, sottraendole alla fruizione dei loro diritti propri del dettato Costituzionale e costretti a sperare che un dio assassino sia il loro soccorritore nell'esistenza.
Coloro che violentando l'articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana pretendono che un soggetto, usato per la manipolazione della struttura emotiva dei ragazzi, sia considerato al di fuori della legge e al di fuori del giudizio morale con cui le persone nella società lo identificano. Questa pretesa di violazione dei principi Costituzionali fu tentata, in nome di Gesù, sia dal Lodo Schifani che dal Lodo Alfano (quest'ultimo reso effettivo dalla firma di Giorgio Napolitano nel tentativo di destabilizzare il principio di uguaglianza Costituzionale per cui disse: "Non vedo l'incostituzionalità!"). Perché in nome di Gesù? Perché la pretesa di chi ha voluto il Lodo Alfano, non è della Costituzione, come la Corte Costituzionale ha affermato cancellando il Lodo, ma è un principio proprio della bibbia e dei vangeli:
"E non avete letto nella legge che, nei giorni di sabato, i sacerdoti nel Tempio violano il sabato e sono senza colpa? Or io vi dico: c'è qui uno più grande del Tempio. Se poi avreste compreso che cosa significa: "Preferisco la misericordia al sacrificio", non avreste condannato degli innocenti. Il Figlio dell'uomo, infatti, è padrone del sabato." Matteo 12, 5
è il dio dei cristiani che bestemmia contro le persone.
Il reato di bestemmia non offende la società civile, ma l'azione di repressione dell'imprecazione chiamata "bestemmia" è un'azione repressiva della capacità di giudizio delle persone che, considerando il dio dei cristiani al di fuori della legge, è volta a legittimare l'omicidio, il genocidio e la manipolazione mentale dei ragazzi. Quando interviene la repressione rispetto all'affermazione popolare di "porco dio", questa non interviene per reprimere un "reato", ma per legittimare i reati di cui il dio dei cristiani si fa forza per aggredire le persone.
Che la società stabilisca delle regole giuridiche entro le quali un'azione è legittima e fuori delle quali un'azione è illegittima, è un dato di fatto. Che un sociologo tenti di trasformare la norma giuridica in una legittimazione morale a somiglianza della legittimazione dei comandamenti imposti da un dio padrone, questo offende ogni intelligenza.
Il sociologo parte da delle "idee desiderabili" di modello sociale esattamente come la bibbia di ebrei e cristiani considera un modello di società desiderabile il modello imposto dal dio padrone dei cristiani. La violenza con cui il dio dei cristiani si impone sulla società tentando di condurre gli individui entro il modello imposto, è il MAGGIOR REATO DA RICONOSCERE NELLA STORIA DELL'UMANITà. Non esiste la possibilità di considerare un reato la "legittima difesa" se non quando non si vuole riconoscere l'offesa patita da chi ha reagito.
Durkheim rileva come nella società ebrea e cristiana, il reato contro gli ordini del dio padrone, fungono da momento di libertà e modifica della società. Durkheim chiama questo "evoluzione". Durkheim chiama "reati" le rivoluzioni dimostrando come la sua idea di legalità e di moralità sia legata all'obbedienza e alla legittimazione dell'assolutismo del dio padrone della bibbia, di cui si guarda bene dal censurarne i reati.
Per i sociologi, i positivisti e Durkheim si pone quando si associa l'evoluzionismo al creativismo.
è in quel momento che il reato svolge, per Durkheim, la sua funzione sociale positiva. L'uomo, cacciato dal paradiso terrestre errabonda sotto la morale del dio padrone, fissa tale morale, ma rimane un uomo primitivo. Il reato, violando quella morale, diventa elemento di variazione della staticità sociale fungendo da stimolo per il progresso della società. Senza i reati, la società rimane statica, primitiva, in sé perfetta, ma dal momento che avvengono reati, la società, secondo Durkheim, è costretta a modificarsi.
Scrive Durkheim in Le Regole del metodo sociologico ed. Einaudi 2008:
Non è tutto. Oltre a questa utilità indiretta, accade che il reato abbia anch'esso una funzione utile nell'evoluzione. Non soltanto esso implica che i mutamenti necessari trovino via libera, ma in certi casi esso prepara anche direttamente questi mutamenti. Dove il reato esiste i sentimenti collettivi hanno la plasmabilità necessaria per assumere una nuova forma; e talvolta esso contribuisce anche a predeterminare la forma che assumeranno. Quante volte, infatti, il reato non è altro che un'anticipazione della morale futura, il primo passo verso ciò che sarà! Secondo il diritto ateniese, Socrate era un criminale e la sua condanna non aveva nulla di men che giusto; eppure il suo reato - vale a dire la sua indipendenza di pensiero - è stato utile non soltanto all'umanità, ma anche alla sua patria. Esservi infatti a preparare la nuova morale e la nuova fede di cui allora gli Ateniesi avevano bisogno, perché le tradizioni in base a cui erano vissuti fino a quel giorno non erano più in armonia con le loro condizioni di esistenza. Ed il caso di Socrate non è isolato, ma si riproduce periodicamente nella storia. La libertà di pensiero della quale godiamo attualmente non avrebbe mai potuto venir proclamata se le regole che la vietavano non fossero state violate prima di venir solennemente abrogate. Tuttavia, in quei tempi, tale violazione costituiva un reato, essendo un'offesa arrecata a sentimenti ancora vivissimi nella generalità delle coscienze. E ciononostante quel reato era utile poiché preludeva a trasformazioni che diventavano di giorno in giorno più necessarie. La libera filosofia ha avuto come precursori gli eretici di ogni specie, che il braccio secolare ha giustamente colpito durante tutto il corso del Medioevo e fino alla vigilia dell'epoca contemporanea. Da questo punto di vista i fatti fondamentali della criminologia ci si presentano in una luce affatto nuova. Contrariamente alle idee correnti, il criminale non appare più come un essere radicalmente non-socievole, una specie di elemento parassita, di corpo estraneo e non assimilabile introdotto in seno alla società. Egli è invece un agente regolare della vita sociale. Il reato, da parte sua, non deve più venir concepito come un male che è impossibile contenere in limiti troppo angusti; ma quando accade che esso scenda sensibilmente al di sotto del suo livello ordinario, questo fatto non deve essere per noi un motivo di soddisfazione, perché questo apparente progresso è certamente contemporaneo e solidale a qualche perturbamento sociale. Per questo motivo la cifra dei ferimenti non è mai tanto bassa come nei periodi di carestia. Nello stesso tempo, e di rimbalzo, la teoria della pena risulta rinnovata, o piuttosto da rinnovare. Infatti, se il reato è una malattia, la pena è il suo rimedio, e non la si può concepire altrimenti; perciò tutte le discussioni che essa solleva riguardano ciò che essa dovrebbe essere per adempiere la sua funzione di rimedio. Ma se il reato non ha nulla di morboso, la pena non può avere come scopo la sua guarigione, e dobbiamo cercare altrove la sua vera funzione.
Non si può certamente dire che l'unica ragione delle regole precedentemente enunciate sia quella di soddisfare a un formalismo logico privo di grande utilità, dal momento che - al contrario - i fatti sociali essenziali mutano interamente carattere a seconda che esse vengano applicate o meno. E se questo esempio è particolarmente probante - e appunto perciò ci siamo soffermati su di esso - ve ne sono anche molti altri che potremmo utilmente citare. Non esiste società nella quale la pena non debba essere, di regola, proporzionale al delitto; e tuttavia per la scuola italiana questo principio non è che un'invenzione dei giuristi, del tutto priva di solidità. Anzi, per i criminologi in questione l'intera istituzione penale - così come ha funzionato finora presso tutti i popoli conosciuti - è un fenomeno contro natura. Abbiamo già visto che per GAROFALO la criminalità specifica delle società inferiori non ha nulla di naturale. Per i socialisti l'organizzazione capitalistica, malgrado la sua generalità, costituisce una deviazione dallo stato normale, prodotta dalla violenza e dall'artificio; per SPENCER, invece, la nostra centralizzazione amministrativa e l'estensione dei poteri del governo costituiscono il vizio radicale delle nostre società, benché entrambe progrediscano nel modo più regolare e universale col procedere della storia. Non crediamo che nessuno si sia mai sforzato di decidere del carattere normale o anormale dei fatti sociali in base al loro grado di generalità. Queste questioni vengono sempre risolte a furia di dialettica. Tuttavia, se si scarta questo criterio, non soltanto ci si espone a confusioni e ad errori parziali - come quelli che abbiamo ricordato - ma si rende impossibile la scienza stessa. Infatti il suo scopo immediato è lo studio del tipo normale; ma, se i fatti più generali possono essere morbosi, può darsi che il tipo normale non sia mai esistito nei fatti. In tal caso, a che cosa serve studiarli? Essi possono soltanto confermare i nostri pregiudizi e radicare i nostri errori, dal momento che risultano da essi. Se la pena e la responsabilità, quali esistono nella storia, sono soltanto un prodotto dell'ignoranza e della barbarie, a qual fine dobbiamo sforzarci di conoscerle per determinarne le forme normali?
La difficoltà per Durkheim di concepire il reato come un atto di legittima difesa nei confronti dei reati del dio padrone nei confronti degli uomini e, per estensione, dei reati del sistema Istituzionale nei confronti dei cittadini, è dovuta all'educazione che lo ha sottomesso all'idea di "naturalità" della morale del dio biblico e dei suoi ordini.
Si parla di "legittima difesa" quando le sollecitazioni espansive che la vita esercita nei soggetti della Natura vengono limitate, contenute o represse in funzione di un soggetto che, senza queste attività dominatrici, non potrebbe esistere o vivere. è il caso assoluto del dio padrone di ebrei e cristiani la cui morale, elevata a legge, condiziona l'intera vita umana distinguendo chi è obbediente da chi si ribella. Chi si ribella in funzione delle pulsioni di vita, al di là di come le veicola nella società, è colui che, secondo Durkheim, commette reati. Invece, è la vittima. E la sociologia dovrebbe svilupparsi partendo dal presupposto che costui, costretto a commettere reati, è la vittima di reati che su di lui sono stati commessi. Questo solo fintanto che la società si trasforma, date quelle sollecitazioni, quegli atti da illegali diventano morali e fondanti la società.
Quando Durkheim in "La divisione del lavoro sociale" (1893) a p. 151-152 edizione Comunità 1971 dice:
Per quanto ne sappiamo, il diritto nelle società del tutto inferiori pare sia stato interamente repressivo. "Il selvaggio - dice LUBBOCK - non è libero da nessuna parte. Nel mondo intero, la vita quotidiana del selvaggio è regolata da una quantità di costumi (imperiosi al pari di leggi) complicati e sovente molto scomodi, da proibizioni e da privilegi assurdi. Numerosi e severissimi regolamenti, per quanto non scritti, tracciano esattamente tutti gli atti della loro vita.. Si sa, infatti, con quale facilità presso i popoli primitivi le maniere di agire si consolidano in pratiche tradizionali, e d'altra parte quanto grande è tra di essi la forza della tradizione. I costumi degli antenati sono circondati da tanto rispetto che non si può derogare ad essi senza essere puniti. Ma le osservazioni di questo genere mancano necessariamente di precisione, perché nulla è difficile come cogliere usanze così fluttuanti. Per condurre la nostra esperienza con metodo, dobbiamo farla poggiare il più possibile su diritti scritti.
I quattro ultimi libri del Pentateuco - cioè l'Esodo, il Levitico, i Numeri, il Deuteronomio - rappresentano il più antico monumento di questo genere in nostro possesso 2. Tra questi quattro o cinquernila versetti, soltanto in un numero relativamente infimo sono state espres- se regole che possono, a rigore, sembrare non repressive. Esse si riferiscono ai seguenti oggetti:
Ci rivela due concetti precisi a fondamento dell'idea di Durkhneim.
Il primo è la sua proiezione psicologica su società antiche che chiama "inferiori" o "selvagge" in contrapposizione a quella che lui vive e che definisce, per conseguenza, superiore. Dunque, un disprezzo assoluto per civiltà molto antiche di cui ignora assolutamente tutto, ma che vuole definire i termini del loro abitare il mondo mediante un'immaginazione sociale depravata nella sottomissione al suo dio padrone.
Il secondo aspetto ci dice che Durkheim vive una condizione psichico-culturale prigioniero dell'illusione. Quando afferma che il libri del pentateuco sono in più antichi monumenti al costume giuridico degli antichi in suo possesso, dice una bugia.
Quando più avanti parla delle leggi romane delle dodici tavole, afferma:
La legge delle Dodici Tavole si riferisce ad una società già molto più progredita e più vicina a noi di quanto lo fosse il popolo ebraico. Ne è la prova il fatto che la società romana non è giunta al tipo della Polis che dopo esser passata attraverso la fase a cui la società ebraica è rimasta definitivamente, e dopo averla oltrepassata; ne avremo la prova più avanti
In realtà, la Lex Regia, di cui le leggi delle Dodici Tavole sono un'elaborazione del 450, era già un codice di leggi nell'VIII sec. a. c. Il Pentateuco fu scritto nel VI sec. a.c. durante la deportazione degli ebrei a Babilonia (fu là che impararono a leggere e scrivere) o subito dopo.
Se assumessi il parametro di ragionamento di Durkheim, considerando le attuali conoscenze, dovrei dire che tutta l'impostazione positivista del sistema sociale è falsa e costruita da Durkheim in funzione della legittimazione dell'odio sociale del dio della bibbia.
Va da sé che oggi abbiamo codici su cui lavorare che ci riportano sistemi di leggi infinitamente (anche 2000 anni) più antiche del Pentateuco ebraico e norme di civiltà sulle quali gli ebrei hanno vomitato il loro odio e il loro disprezzo che si è trasferito nell'ideologia religiosa cristiana.
Intanto c'è il codice di Hammurapi del XVIII sec. a. c.; il codice Ur-Nammu un re sumero del XXI sec. a.c.; il codice Lipit-Istar 2017-1985 a.c.; leggi di Esnunna 1840 a.c.; le leggi Assire dalla caduta del controllo degli Hurriti fra il 1426 al 1077 a. c.. E i codici Hittiti di Mursili I del XVI sec. a.c.. E i codici egiziani, come la stele di Horemheb.
In sostanza, esistono sistemi di leggi del vicino oriente ben più antiche che non il Pentateuco che fu scritto e diffuso sotto Giosia nel 622 a.c.
Questi codici erano codici nobili, come nobili erano le sentenze scritte. Dal momento che sono stati fatti questi ritrovamenti, tutti i presupposti della filosofia e della sociologia positivista sono oggettivamente falsi. E falso, se consegue, è lo sviluppo logico dell'intera struttura di pensiero sociologico.
Il terrore che Durkheim legge nella bibbia e nelle sue leggi inumane, non è il frutto di un'evoluzione, ma è il frutto della patologia psichiatrica dello schiavo che immagina quali leggi avrebbe emanato se fosse stato il padrone: "Lui si che ci sapeva fare, non i suoi padroni!".
Da un lato Durkheim paventa un'evoluzione sociale che risulta falsa e dall'altra parte mette a fondamento della società l'assolutismo patologico ebraico che, trasferito nel cristianesimo, è il reato contro la vita dal quale ogni cittadino, di ogni ambiente sociale, si deve difendere.
Questa difesa, il criminale Durkheim, la chiama "commettere un reato".
L'elemento centrale a cui devono far riferimento ogni analisi della società è l'orrore del delirio di onnipotenza del dio padrone dei cristiani e degli ebrei che Durkheim nasconde per i propri interessi. Ne nasconde la fonte e attribuisce l'onnipotenza alla società come organo coercitivo nei confronti dei cittadini.
Capire che il delirio di onnipotenza del dio padrone non appartiene al divenire delle società, ma appartiene alla malattia degenerativa con cui si sono imposti organi di dominio negli ultimi 2000 anni, ci permette di cambiare tutti i presupposti d'analisi delle questioni sociologiche.
Quando rintracciamo le leggi degli Antichi, possiamo dire tante cose sul fatto che molte leggi ci sono estranee, ma dobbiamo tener conto che tali leggi erano più funzionali e attente alla società civile che non i deliri del dio padrone degli ebrei.
Qualche esempio per capire da dove gli ebrei hanno copiato le loro farneticazioni deliranti.
Prendo i testi da Claudio Saporetti in "Antiche Leggi – Codici del vicino oriente" ed. Rusconi 1998 a pag. 33:
Sempre in Lagas, Urukagina (o Uruinimgina, 2350 c.) con una serie di disposizioni che troviamo ricordate in diverse iscrizioni', aveva posto un freno agli eccessi della tassazione, di cui erano vittime battellieri, mandriani, pescatori, profumieri, persino chi portava a tosare le pecore a Palazzo, persino chi voleva divorziare o seppellire i propri morti; aveva combattuto anche gli abusi del potere: prima di lui l'ensi di Lagas accumulava ricchezze e proprietà, e si serviva dei buoi del tempio per arare i suoi terreni, i quali non erano poi che quelli del tempio abusivamente requisiti; e le persone che detenevano il potere potevano permettersi di mettere le mani sulle case dei poveri senza pagar loro il dovuto, o di depredare dei frutti e dei pesci i loro frutteti e i loro stagni. Stando almeno a quanto leggiamo riuscì insomma davvero a ristabilire la giustizia, proteggendo le vedove e gli orfani (l'espressione avrà molta fortuna in seguito), e «restaurò la libertà», quella libertà di proprietà e di commercio che gli abitanti di Lagas avevano perduto durante il regno dei sovrani precedenti. Non si trattava propriamente di leggi, e neppure di "riforme" come possiamo intenderle noi: sono il tentativo di riportare le cose a una situazione di "giustizia" che l'abuso del potere mirava ad annichilire, a scapito dei sottoposti.
Oppure da Claudio Saporetti in "Antiche Leggi – Codici del vicino oriente" ed. Rusconi 1998 a pag. 33-34:
Abbastanza indipendente dai Gutei ci appare tuttavia il pio Gudea di Lagas (2140 c.). è un personaggio famoso per le sue iscrizioni che ce lo mostrano tutto intento ad opere di pace, soprattutto alla costruzione di templi per le sue divinità.
[...]
Insomma, come dice lui stesso, s'interessò ai principi di giustizia. E se giustizia è cercare di colmare i vuoti tra le classi sociali, impedendo che i sottoposti siano oppressi e concedendo loro, ogni tanto, un po' di respiro o almeno l'illusione di alzarsi di grado, vuol dire che almeno ci aveva provato. E c'è conferma se consideriamo quanto ha fatto in favore delle donne, non solo impedendo che fossero adibite a lavori pesanti, ma concedendo che la figlia subentrasse come erede quando il maschio mancava. Per quei tempi non era poco. Ecco alcuni esempi significativi, che riportiamo nella traduzione di Giorgio Castellino:
Nella Statua A: «Quando il dio Ningirsu rivolse lo sguardo benigno alla sua città / e scelse Gudea a pastore del paese / prendendolo per mano di mezzo alla moltitudine / (Gudea) ... non (permise che) donna portasse il corbello, / ma vi destinò ministri del tempio. / ... Non si fece uso della frusta o del flagello; / la madre non batté il figlio. / ... In (tutto) il territorio di Lagas chi aveva una causa / non si presentò al luogo del giuramento, / l'esattore non si presentò in casa di alcuno» (Col. III; 6 sg.; IV: 1-19; V: 1-7). Era insomma la cessazione di ogni attività profana, che dava un po' di respiro ai debitori ed ai sottoposti. Altrove è la stessa statua che parla: «Quando costrusse l'Eninnu, suo amato tempio, / rimise i debiti, pose in libertà; / per sette giorni non (permise che) si macinasse grano; / la serva s'accompagnò con la sua padrona, / il signore si tenne fianco a fianco con lo schiavo. / ... S'interessò ai principi di giustizia .. ./ non consegnò l'orfano al ricco, non consegnò la vedova al potente. / Nella famiglia senza erede maschio (permise che) entrasse come erede una figlia e" (VII: 23- 46). Nei Cilindri A e B sono ripetuti gli stessi concetti: «Dalla frusta e dal bastone "sciolse" la "lingua" (il nerbo) / e pose loro in mano lana di pecora madre. / La madre non sgridò più il proprio figlio, / il figlio con la madre / non parlò più in corruccio. / Allo schiavo colpevole di infrazione / il padrone non diede più il bastone in testa, / la schiava, fatta preda di guerra, / la padrona non schiaffeggiò più» (Cil. A, Col. XIII: 1-9);
Oppure, per quanto riguarda gli Ittiti da Claudio Saporetti in "Antiche Leggi – Codici del vicino oriente" ed. Rusconi 1998 a pag. 75:
Abbiamo già accennato ad una caratteristica delle leggi ittite: molti articoli sono volti a modificare delle usanze precedenti, che veniamo così a conoscere indirettamente. Poiché predomina il risarcimento (in parallelo con le leggi sumere e quelle "paleobabilonesi" di Esnunna), troviamo spesso scritto che una cifra, da pagare in parte come multa ed in parte come risarcimento, con le nuove disposizioni veniva modificata, in genere (non sempre) dimezzandola. Ma questo continuo confronto tra leggi nuove e leggi precedenti ci permette di sapere anche di più: per esempio che il risarcimento poteva restare invariato, ma la somma da pagare era dimezzata perché lo Stato rinunciava a riscuotere la multa, ed anche che c'erano disposizioni più antiche, abolite a favore del risarcimento, molto più severe, compresa la condanna capitale.
Si tratta di sistemi giuridici coerenti ai bisogni e alle necessità delle società. Non erano deliri di onnipotenza del dio padrone che dice "Io sono il vostro padrone e voi fate quello che voglio io!". Equilibrio e giustizia erano ben presente nell'oriente da cui l'anomalia ebrea ha sviluppato la propria patologia delirante.
Quelle dei popoli sono leggi funzionali alla società, gli ebrei e poi i cristiani fanno leggi funzionali al dominio del loro dio padrone e nessuna legge verrà fatta per contenere l'assolutismo del dio padrone nella società e nella psiche del singolo cittadino.
Partendo dai presupposti deliranti di Durkheim che legittima il dio padrone nella società e nega negli uomini di 10.000 anni or sono quell'accortezza di gestire la libertà sociale, di fatto, l'intera sociologia positivista è una legittimazione dei crimini e della violenza che per 2000 anni è stata perpetrata nelle società occidentali.
Teoria della Filosofia Aperta - Volume uno
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Nel 1995 (mese più, mese meno) mi sono posto questa domanda: se io dovessi confrontarmi con i filosofi e il pensiero degli ultimi secoli, quali obiezioni e quali argomenti porterei? Parlare dei filosofi degli ultimi secoli, significa prendere una mole di materiale immenso. Allora ho pensato: "Potrei prendere la sintesi delle loro principali idee, per come hanno argomentato e argomentare su come io mi porrei davanti a quelle idee." Presi il Bignami di filosofia per licei classici, il terzo volume, e mi passai filosofo per filosofo e idea per idea. Non è certo un lavoro accademico né ha pretese di confutazione filosofica, però mi ha permesso di sciacquare molte idee generate dalla percezione alterata nel fiume del pensiero umano. |
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Marghera, 15 settembre 2012 Claudio Simeoni Meccanico Apprendista Stregone Guardiano dell’Anticristo Tel. 3277862784 e-mail: claudiosimeoni@libero.it |
Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.