Cod. ISBN 9788891185808
Teoria della Filosofia Aperta - Volume tre (alle pagine sulla Nascita della Tragedia)
Teoria della Filosofia Aperta - Volume tre
Quando Nietzsche scrive La nascita della Tragedia nel 1872 ha davanti a sé un gioco estetico in cui con difficoltà vuole distinguere e separare quanto appartiene alla struttura emotiva e quanto, della struttura emotiva, si può trasferire nella forma e nelle immagini.
Impulso emotivo come forza della vita e razionalità, ragione della rappresentazione degli impulsi. Nietzsche vede nella musica, nella capacità della musica di attivare la sfera emotiva dell'uomo senza usare le parole, un'espressione della volontà emotiva, dell'ebbrezza mistica, dell'uomo che esce dalla forma e dalla rappresentazione per tuffarsi in un delirio fine a sé stesso.
Nella cultura in cui è immerso Nietzsche, in quel evoluzionismo creativista positivista ottocentesco, anche la tragedia greca, nell'immaginario di Nietzsche, subisce una sorta di evoluzione che partendo da espressioni emotive deliranti rappresentate in Eschilo e Sofocle, si evolvono in un razionalismo, più vicino alla descrizione razionale, in Euripide per essere annullate nella miseria delle rappresentazioni razionali e prive di emozioni dei dialoghi di Platone.
Davanti alla realtà del proprio vissuto, Nietzsche sogna un mondo in cui il delirio coinvolga la propria struttura emotiva che percepisce come imprigionata e sofferente nella tragedia della realtà vissuta.
In questo modo Nietzsche conclude La nascita della Tragedia.
Scrive Nietzsche:
"o felice popolo degli Elleni! Quanto deve essere stato grande fra voi Dioniso, perché il Dio di Delo ritenesse necessario usare simili incanti per guarire il vostro ditirambico delirio!" Ma a colui che così parlasse, si avvicinerebbe un vecchio ateniese che, fissandolo in viso col sublime occhio di Eschilo, griderebbe: "Aggiungi anche questo alle tue parole, o singolare straniero: quanto ha dovuto soffrire questo popolo per diventare così bello! Ma ora seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel tempio di entrambi gli dei!".
Pag. 120
Il desiderio di Nietzsche di perdersi nel tragico immaginato, dove egli può vivere un delirio dimentico che tutti gli uomini, comprese le comparse della sua rappresentazione, stanno vivendo, a loro volta il loro delirio nei suoi confronti, è la forza con cui analizza la tragedia greca che si presenta alle sue emozioni.
Nietzsche sta vivendo una vita tragica, ma nel vivere una vita tragica sogna di vivere una vita tragica in cui la tragedia che vive non gli procuri sofferenza emotiva, ma quel trionfo dell'eroe che la rappresentazione estetica separa da quelle stesse emozioni deliranti che vorrebbe elevare a mito della rappresentazione tragica.
Questa contraddizione, questa separazione fra desiderio del delirio e necessità di separarsi, mediante la realizzazione estetica, dal dolore che il delirio tragico, inevitabilmente, produce sul vissuto di Nietzsche, nasce da una condizione oggettiva che è venuta formandosi dalla fine di quella rappresentazione che Nietzsche eleva a modello dionisiaco.
La fine del suo modello ideale è stata imposta da Platone e da Socrate. Nietzsche, vivendo quella fine, si volge indietro e dalla fine risale alle origini idealizzate di un passato, di un'età dell'oro della tragedia, di cui si sente privato ed esautorato.
Scrive Nietzsche:
Il prodigio era compiuto. Quando il poeta si ritrattava, il suo intento aveva vinto. Dioniso era ormai scacciato dalla scena e per mezzo di una forza demoniaca che parlava dalla bocca di Euripide. Lo stesso Euripide non era, per così dire, che una maschera: la divinità che parlava dalla sua bocca non era Dioniso, non era Apollo, ma un demone appena nato, che si chiamava Socrate. Questa è la nuova antinomia dionisismo e socratismo, e con questa si spense 1'arte tragica greca. Per quanto Euripide si sforzi di consolarci con la sua ritrattazione, non ci riesce affatto: il tempo magnifico giace in rovina; a che ci servono le lamentazioni del distruttore e la sua ammissione che quello è stato il più mirabile di tutti i tempi? E se è vero che Euripide sia stato per castigo mutato in drago dai critici di tutti i tempi, potrebbe mai allietarci un compenso così miserabile?
Avviciniamo ora il nostro sguardo a quella tendenza socratica, con cui Euripide combatté e vinse la tragedia di Eschilo. Dobbiamo ora chiederei: quale meta nel suo altissimo ideale costruttivo, poteva prefiggersi Euripide decidendo di costruire il dramma solo su elementi dionisiaci? Quale forma drammatica sopravviveva, se il dramma non doveva più nascere dal grembo della musica, entro la misteriosa penombra dionisiaca? Unicamente l'epos drammatico: dominio artistico apollineo dove certamente non è raggiungibile l'effetto tragico. Qui non si tratta degli avvenimenti rappresentati; anzi io vorrei affermare che a Goethe, nella "Nausicaa" da lui immaginata, sarebbe stato impossibile di rendere tragicamente convincente il suicidio di quella creatura idillica, con cui si sarebbe dovuto chiudere il quinto atto; la forza dell'epico apollineo è così straordinaria che davanti ai nostri occhi esso trasforma col suo piacere dell' apparenza e con la liberazione mediante l'apparenza anche le cose più orribili. Il poeta dell'epos drammatico non può, come del resto il rapsodo epico, mai fondersi completamente con le immagini sue; rimane il tranquillo e impassibile contemplatore che guarda con occhi ben aperti le figure che gli si fanno incontro. L'attore in questo epos drammatico in fondo rimane sempre un rapsodo; alla base di tutte le sue azioni sta sempre la sua consacrazione del proprio sogno interiore, sicché non è mai del tutto soltanto attore.
Ora, qual'è la relazione fra il dramma euripideo e questo ideale del dramma apollineo? La stessa che fra i solenni rapsodi dell'età antica e quello più recente che nello "Jone" platonico così descrive la sua natura: "Quando dico qualcosa di triste, mi si riempiono gli occhi di lacrime; ma se dico qualcosa di terribile e di spaventoso, i capelli mi si rizzano sulla testa e il cuore mi batte. "Qui non vediamo più niente di quel completo abbandono epico nell'apparenza, di quella freddezza spassionata che al sommo dell' azione non è che apparenza e amore dell'apparenza. Euripide è l'attore a cui batte il cuore, a cui i capelli si rizzano sulla testa; egli disegna il suo piano di pensatore socratico, lo esegue da attore pieno di passione. Egli non è puro artista né del progetto né dell'esecuzione. Così il dramma d'Euripide è cosa a un tempo gelida e ardente, capace a un tempo di agghiacciare e di bruciare; gli è impossibile raggiungere l'effetto apollineo dell'epos, ma d'altra parte si sente per quanto possibile svincolato dagli elementi dionisiaci, sicché adesso ha bisogno per creare effetto di ricorrere a nuovi strumenti emotivi, che non possono più essere forniti solamente da quei due unici impulsi artistici, l'apollineo e il dionisiaco. Questi strumenti emotivi sono freddi pensieri paradossali - al posto delle estasi dionisiache - ed anzi sono pensieri e passioni imitate in modo estremamente realistico e che non sono per nulla immersi nell'etere dell'arte.
Da pag. 68 a pag. 70
L'arte come finzione della realtà vissuta. Scimmiottamento del vissuto emotivo che richiama nello spettatore la compartecipazione alla rappresentazione mediante la sintonia del suo stesso vissuto. Quest'arte, dice Nietzsche, non ha nulla della passione dionisiaca ed è lontana dalla rappresentazione apollinea della forma. La passione emotiva e la ragione lasciano lo spazio alla recitazione di un presente in cui viene coinvolto lo spettatore.
Il demone appena nato, il deux ex machina, racconta agli uomini che cosa gli uomini devono pensare, cosa gli uomini devono fare, qual è la moralità a cui gli uomini si devono attenere. Come il demone dice a Socrate, così il demone di Euripide dice agli spettatori, spiegando la trama della tragedia che viene rappresentata, che cosa gli spettatori devono leggere, vedere e vivere nella tragedia che diventa, agli occhi di Nietzsche, la tragedia della loro stessa vita.
Non è più lo spettatore che interpreta, vivendolo, il dramma rappresentato, ma è il poeta che dice allo spettatore come egli deve interpretare e vivere il dramma a cui assiste.
In questo intervento del demone di Socrate che invade la scena della rappresentazione della tragedia, si instaura un controllo del poeta sullo spettatore. Uno spettatore che non vive più le passioni di Dioniso, né è libero di bearsi della forma della rappresentazione in un Apollo presentato nella scena, ma che deve sottostare al demone della narrazione e adeguare la propria struttura emotiva e la propria percezione della forma a quanto il poeta vuole rappresentare.
Come il demone di Socrate si fa padrone di Socrate determinando le sue azioni, così il poeta si fa padrone degli spettatori determinando la qualità e la direzione in cui costoro devono emozionarsi.
Scrive Nietzsche:
Dopo aver così dimostrato che Euripide non soltanto non è riuscito a fondare il dramma esclusivamente sull'elemento apollineo, ma che anzi la sua ostilità al dionisismo è andata a perdersi in una tendenza naturalistica e antiartistica, potremo adesso avvicinarci molto di più all'essenza del socratismo estetico, di cui la legge suprema suona all'incirca così: "ogni cosa, per essere bella, deve essere comprensibile"; che è sentenza parallela a quella di Socrate: "solo il sapiente è virtuoso". Attenendosi a questo principio Euripide misurò con esso e aggiustò tutti gli elementi della tragedia: lingua, caratteri, struttura drammatica, musica corale. Quella mancanza di poesia e quel regresso che siamo soliti rimproverare così spesso ad Euripide confrontandolo con la tragedia di Sofocle, è per la maggior parte il prodotto di quell'acuto processo critico e di quel troppo spinto razionalismo. Il prologo euripideo ci serve da buon esempio dei risultati di quei metodi razionalisti. Non può esserci nulla di più ripugnante alla nostra tecnica scenica del prologo nel dramma euripideo. Un autore drammatico moderno qualificherebbe come una temeraria e imperdonabile rinuncia all'effetto dell'attesa e della curiosità che un personaggio esca da solo all'inizio del dramma, racconti chi sia, che cosa ha preceduto 1'azione, cosa è successo finora, cosa accadrà nel corso di essa. Già si conosce tutto quello che accadrà: e chi vorrà aspettare che finalmente accada? E qui non è affatto questione del rapporto appassionante fra un sogno profetico e una realtà subentrante in seguito. Euripide calcola gli effetti in modo totalmente diverso. L'effetto della tragedia non si è mai appoggiato alla tensione epica, alla stimolante incertezza su ciò che adesso e dopo accadrà, piuttosto invece a quelle grandi scene retorico-liriche in cui la passione e la dialettica del protagonista si gonfiano fino a diventare un fiume largo e possente. Tutto predisponeva alla passione, non all'azione: e quanto non predisponeva alla passione era da scansare. Ma soprattutto è difficile per lo spettatore abbandonarsi con piacere a tali scene per la mancanza di qualche membro del dramma, una lacuna nel tessuto delle circostanze antecedenti; tino a quando lo spettatore deve chiedersi che cosa significhi questo o quel personaggio o quale presupposto abbia quel conflitto d'inclinazioni o d'intenzioni, la sua piena immedesimazione nel dolore e nell' azione dei protagonisti, la partecipazione spasimante e la compassione e il timore sono ancora impossibili.
Da pag. 70 a pag. 71
Cosa significa che "ogni cosa sia comprensibile" se non la negazione della capacità dello spettatore di comprendere la rappresentazione cui assiste? A chi deve essere comprensibile? Al poeta che la rappresenta o allo spettatore che vi assiste? Il poeta che rappresenta l'opera comprende la sua opera? Saremmo dei folli se non pensiamo che il poeta conosca la sua opera. Gli spettatori comprendono l'opera? Saremmo dei folli se non partiamo dal presupposto che gli spettatori assistono ed interpretano quanto viene rappresentato.
E allora, che cosa si maschera dietro la necessità di far comprendere? Si maschera il controllo dello spettatore. Il poeta ha la necessità di convogliare le emozioni e la comprensione dello spettatore nella direzione che lui vuole. La tragedia rappresentata non deve rappresentare un momento esistenziale che viene interpretato dallo spettatore, ma deve servire per avere il controllo delle emozioni dello spettatore. Avere il controllo delle sue idee, delle sue scelte.
Quando Elettra in Oreste di Euripide dice:
ELETTRA:
Non c'è parola così tremenda, non c'è sventura né evento mandato da Dio, al cui peso non regga la natura umana. Tantalo fu beato (non intendo schernire la sua sorte): figlio di Zeus, si dice. Ebbene: con quell'incubo del masso che gl'incombe sul capo, sta librato nell'aria; e sconta la pena, dicono, per questo: uomo, aveva l'onore di sedere a mensa con gli dèi da pari a pari; ma sfrenò la lingua - vergognoso vizio. Lui fu il padre di Pèlope; da Pèlope nacque àtreo. A costui, nel tessergli lo stame della vita, la dea della discordia impose questo fato: fare guerra a Tieste, il fratello. Ma perché ripercorrere questi fatti nefandi? Atreo gli uccise i figli e lo invitò a banchetto. E Atreo (taccio di quanto accadde in mezzo) da una donna di Creta, Aèrope, diede la vita al glorioso Agamennone (ma fu glorioso, poi?) e a Menelao. Quest'ultimo, Menelao, sposò la donna odiata dagli Dèi, Elena; e quello, il re Agamennone, s'uni a Clitennestra in un connubio... esemplare fra i Greci. Da quell'unica donna gli nascemmo noi tre femmine, Ifigenia, Crisòtemi, e io, Elettra, e un maschio, Oreste. Empia madre la nostra, che ravvolse lo sposo nell'intrico d'un peplo senza uscita e l'ammazzò. Il perché, non sta bene a una fanciulla dirlo: lo lascio in ombra; e capisca chi vuole. Devo accusare d'ingiustizia Apollo? Fu lui che persuase Oreste a uccidere la madre che gli aveva dato la vita: un atto non per tutti glorioso. Lui comunque l'uccise, dando retta al dio. Ebbi parte al delitto, per quel che può una donna, anch'io, e Pilade, che agi di concerto con noi.
Tratto da: Oreste di Euripide ed. Newton
Elettra non rappresenta il proprio dramma, ma inquadra il proprio dramma nell'insieme di idee religiose, di vissuti, di comportamenti morali che sarebbero o non sarebbero opportuni. In quest'ottica il coinvolgimento dello spettatore nel dramma viene premesso solo alle condizioni che lo spettatore deve vivere nel dramma stesso. Vengono indicati i principi emotivi ai quali lo spettatore si deve adeguare e vengono richiamati alla memoria, come premessa, altri drammi e altre situazioni attraverso le quali lo spettatore attiva ricordi psichici da rivivere nella rappresentazione dell'Oreste.
E' Euripide che, come il demone di Socrate, dice allo spettatore come deve vivere la sua vita. L'uomo non interpreta la vita attraverso le necessità emotive del Dioniso che cresce dentro di lui e che viene rappresentato nella forma dall'Apollo che esprime la propria idea di forma del mondo, ma le emozioni dell'uomo vengono guidate affinché si esprimano in quel modo e la forma, il bello, diventa quello che chiunque può capire come bello e che rappresenta un'omologazione del bello di cui Socrate, Euripide e ogni Comando Cristiano, in nome del dio padrone, identifica come morale e come bello.
E' la rivoluzione filosofica di Platone. L'uomo non è il protagonista della vita, ma è lo spettatore che si adegua alla rappresentazione del demiurgo o del saggio Socrate che gira come un ossesso per Atene per dimostrare a tutti che lui è il più saggio e gli uomini si devono sottomettere perché la sua saggezza è stata proclamata dal dio di Delfi.
Al di là delle esigenze di Euripide, Platone ha messo a tacere sia il Dioniso che l'Apollo che si agitano in ogni uomo e che lo spingono a riconoscere sé stessi nelle azioni del mondo. E' il demiurgo, è il dio padrone, è Socrate padrone, che spiegano all'uomo la loro saggezza, la loro morale e lo costringono a vivere nella loro rappresentazione.
Sedeva alla mensa degli Dèi! Tu spettatore devi iniziare a pensare che lui aveva l'onore di sedere alla mensa degli Dèi. L'azione di sedere alla mensa degli Dèi deve essere pensata dallo spettatore come un onore. Che Tantalo sedesse alla mensa degli Dèi, viene vissuto dallo spettatore con invidia. Lo spettatore non doveva pensare alle passioni di Tantalo, i desideri di Tantalo, la rappresentazione di Tantalo. Non doveva identificarsi in Tantalo. Tantalo era oggettivamente e preventivamente il male in sé stesso che aveva agito nonostante gli fosse stato fatto l'onore di sedere alla mensa degli Dèi. Tu spettatore non devi parteggiare per Tantalo, devi disprezzare Tantalo e devi aspirare a sedere anche tu, e a tal fine adeguare il tuo comportamento, alla mensa degli Dèi.
In questo modo la rivoluzione estetica di Platone, attraverso Socrate, nega il dispiegarsi di Dioniso e di Apollo dentro l'uomo perché il Dioniso e l'Apollo del singolo non vengono compresi che dal Dioniso e dall'Apollo dell'altro e l'altro non può capire l'espressione del Dioniso o dell'Apollo dell'uomo se a sua volta non esprime nel mondo il Dioniso e l'Apollo che ha dentro se stesso.
Per negare le espressioni soggettive degli esseri Umani è necessario l'esistenza di un essere umano che funga da modello a cui gli altri Esseri Umani si devono adeguare: Socrate, il demiurgo, l'Uno, Gesù, il Buddha, la madonna, il dio padrone di ebrei e cristiani. Gli uomini non esprimono più Zeus, Ares, Demetra, Estia, Artemide, Latona, Prometeo, Ercole, Dioniso, Apollo, Atena, ecc. ma sono gli Dèi che dicono agli uomini che cosa gli uomini devono fare, quale morale devono seguire e come devono obbedire. Poi gli Dèi sono troppi per Platone. Gli uomini potrebbero scegliere di seguire questo o quel padrone, allora è meglio sfoltire il numero e Platone si inventa il Demiurgo e il saggio Socrate, dagli ebrei abbiamo il modello del dio padrone, abbiamo il modello di Gesù, del Buddha, ecc. Modelli inumani, privi degli Dèi che si agitano dentro di loro, a cui sottomettere l'uomo.
Scrive Nietzsche:
La tragedia di Eschilo e di Sofocle SI serviva degli espedienti più ingegnosi per porre fin dalle prime scene nelle mani dello spettatore tutti i fili necessari alla comprensione del dramma: un nobile procedimento artistico in cui le necessità formali vengono per così dire mascherate e fatte apparire come fortuite. Tuttavia Euripide aveva creduto di notare nello spettatore durante quelle prime scene una particolare inquietudine determinata dal doversi spiegare i fatti antecedenti, che gli sottraeva le bellezze poetiche e il pathos dell'esposizione. Per questa ragione Euripide introdusse il prologo prima dell'esposizione e lo mise sulle labbra d'una persona di cui ci si poteva fidare. Spesso era una divinità che doveva in un certo modo garantire al pubblico lo svolgimento della tragedia e togliere una volta tutti i dubbi circa la realtà del mito, che poi è molto simile a quello con cui Descartes poteva dimostrare nella realtà del mondo empirico soltanto facendo appello alla veracità di Dio, che non può mentire. Questa stessa veracità Euripide ancora una volta, al termine del suo dramma adopera per rassicurare il pubblico sull'avvenire dei suoi eroi: questo è il compito del famoso deus ex machina. Fra il prologo e l'epilogo epici sta il presente lirico-drammatico, cioè il dramma vero e proprio.
Così dunque Euripide, come poeta, è l'eco delle sue ben meditate riflessioni; e questo per l'appunto gli dà un posto tanto considerevole nella storia dell'arte greca. Considerando la sua maniera critica di creazione, egli spesso dovette pensare se non gli convenisse dar vita anche nel dramma all'inizio dello scritto di Anassagora, le cui parole dicono: "Al principio tutto era insieme commisto; poi venne lo spirito e creò l'ordine". E se Anassagora col suo "nous" apparve fra i filosofi come il primo di senno in mezzo ad una folla di tutti ubriachi, così Euripide può essersi visto in rapporto con gli altri poeti tragici. Fino a quando l'unico ordinatore e regolatore dell'universo, il "nous", era escluso dalla creazione artistica, tutto restava mescolato nel caos primordiale; tale dovette essere il giudizio di Euripide, "il primo uomo di senno", tra i poeti "ebbri". Quello che Sofocle ha detto di Eschilo, che creava cose giuste, quantunque non ne avesse coscienza, non fu certamente detto nel senso inteso da Euripide, che sarebbe invece arrivato a dire che Eschilo creava cose ingiuste perche le cercava inconsciamente. Anche il divino Platone parla per lo più soltanto con ironia della facoltà creatrice del poeta, perché la sua non e un'intelligenza cosciente, e la parifica al dono dell'indovino e dell'interprete di sogni; a suo parere infatti il poeta è incapace di far poesia fino a quando non sia divenuto inconscio e fino a quando in lui sussiste un po' d'intelligenza. Euripide volle, come Platone mostrare al mondo il contrario del poeta "inintelligente"; il suo principio estetico consistente nell'affermare che "ogni cosa, per essere bella deve essere cosciente": è, come ho già detto, il principio parallelo a quello socratico: "ogni cosa, per essere buona, deve essere cosciente". E allora dobbiamo considerare Euripide come il poeta del socratismo estetico. Ma Socrate era quel secondo spettatore che non riusciva a capire la tragedia antica e perciò la disprezzava; in alleanza con lui Euripide osò farsi araldo di una nuova creazione artistica. Se quest'arte distrugge la tragedia antica, il socratismo estetico ne è stato il suo veleno mortale; ma la lotta era diretta contro il senso dionisiaco dell'arte antica, noi riconosciamo in Socrate l'avversario di Dioniso, il novello Orfeo che doveva essere lacerato dalle Menadi del tribunale ateniese: ma che mette in fuga il dio onnipossente; il quale infatti, come già un tempo, quando era perseguitato da Licurgo, re degli Adoni, si rifugiò nelle profondità marine vale a dire nelle onde mistiche d'un culto segreto che a poco a poco invade tutto il mondo.
Da pag. 71 a pag. 72
Platone si fa dio padrone, il divino Platone, offende gli Dèi che si esprimono nella foga della vita degli uomini e offende i poeti che, immergendosi nel mondo emotivo che li circonda, emergono raccontando sensazioni che Platone non può provare.
Platone vive il proprio dramma personale dell'allontanamento dalla vita e al dolore risponde col desiderio di possesso del pensiero e delle emozioni degli uomini.
Secondo Nietzsche, Euripide si fa portavoce, come poeta tragico, del socratismo. Si fa portavoce della negazione dell'espressione dionisiaca e apollinea dello spettatore rinchiudendolo nella dimensione di un dialogo dal quale non può derogare.
Lo spettatore, l'uomo che vive la sua vita, viene educato al disagio. Si sente smarrito, o meglio, si vuole che sia smarrito e si costruiscono le condizioni affinché sia smarrito. Davanti allo smarrimento dell'uomo nella vita, l'Euripide di turno gli fornisce una guida. Un prologo, una premessa e gli costruisce la conclusione della sua storia. In Euripide e nel socratismo l'uomo non vive nell'incertezza e nella responsabilità di manifestare sé stesso davanti al dramma dell'esistenza. Egli è un veicolo privo di ogni pulsione. Platone gli spiega come il Demiugo lo abbia portato in essere, gli spiega come le sue sensazioni non siano sue, ma appartengono all'anima che non appartiene a lui, ma è un'idea del demiurgo; la voce che sente non è sé stesso che elabora il mondo, ma è un demone che si è impossessato di lui e che gli dice che cosa deve o non deve fare e al momento della morte Platone rassicura l'uomo sulla reincarnazione.
La tragedia umana è prodotta da Platone, dal divino Platone; da Platone dio padrone dell'uomo!
La tragedia è costituita da un vissuto in cui l'uomo viene espropriato di sé stesso. La tragedia è il dolore che l'uomo è costretto a subire senza che egli possa disporre della sua nascita, della sua psiche, delle sue determinazioni, delle sue passioni perché tutto ciò che l'uomo è non appartiene all'uomo, costituendone un corpo vivente, ma appartiene ad un oggetto esterno, ad una voce narrante, alla quale l'uomo è invitato a sottomettersi chiamando quella sottomissione, saggezza e virtù.
Sotto questo aspetto Nietzsche equipara Euripide a Descartes che quanto non poteva dimostrare del mondo empirico lo imputava al dio padrone. Lo stesso fa Euripide che quanto non può rappresentare sulla scena della vita lo attribuisce alla volontà del narratore. Un narratore che quasi sempre, dice Nietzsche, è un dio dalla cui bocca esce la verità alla quale lo spettatore si deve adeguare.
Anassagora, dice che da principio i corpi stavano immobili e l'intelletto di dio li pose in ordine e produsse la generazione di tutte le cose.
Tratto da I Presocratici di Diels-Kranz ed. Laterza 1990 p. 576
La necessità di mettere ordine è la necessità di chi vuole dominare un mondo che non comprende e il cui ordine va distrutto in funzione dell'ordine che egli concepisce come funzionale al suo dominio.
Il Demiurgo di Platone identifica in Platone il soggetto demandato al dominio e a stabilire l'ordine delle cose. Platone è il nous ordinatore. E' il nous, l'intelligenza, che ordina un presente che quel nous non è in grado di comprendere.
La creazione artistica della vita non comprendeva l'azione del nous in sé e fuori dagli oggetti attori della vita. Non comprendeva imposizioni alla vita. L'artista, il poeta, era attore, artefice, protagonista e spettatore di una rappresentazione che stimolava gli Dèi dentro di lui.
"Ogni cosa per essere bella deve essere cosciente", deve apparire come logica e cosciente alla coscienza che a quella rappresentazione assiste. Deve essere logica e deve seguire il filo di una narrazione che non spezzi le catene dei limiti imposti. Lo spettatore deve seguire la narrazione perché la narrazione è coscienza esterna che si impone alla coscienza dello spettatore imponendo allo spettatore il dramma della propria esistenza in quanto non è in grado, per volontà del poeta-narratore, di uscire dai confini e dai limiti morali imposti dalla narrazione.
Lo spettatore diventa vittima. Soggetto creato e ordinato dall'intelligenza padrona che determina i limiti della sua esistenza.
E' Platone che dice come l'uomo nasce, è Platone che dice a quale morale l'uomo deve soggiacere, è Platone che determina la struttura della società ideale, è Platone che priva l'uomo dei sentimenti attribuendoli all'anima, è Platone che impone il demone all'uomo ed è Platone che impone la reincarnazione come divenire nella morte dell'uomo: è Platone che impone la tragedia della sottomissione dell'uomo in un dolore che l'uomo deve vivere come accettazione passiva della distruzione esistenziale imposta da Platone.
Eccolo Dioniso: il nemico di Platone.
Eccolo feto nel ventre di Semele mentre Semele brucia per il suo ardimento ed ecco il veloce Ermes raccogliere Dioniso e cucirlo nella coscia di Zeus affinché la gravidanza sia portata a termine. Ed eccolo Dioniso attraversare col suo esercito la via della vita fino ad essere squartato dai Titani e rinato a nuova vita. Dioniso il delirante che come dio cresce dentro l'uomo per essere partorito alla morte del corpo fisico ricomposto da Madre Rea e da Apollo.
Platone deve uccidere il dio che cresce dentro l'uomo per poterlo trasformare in uno schiavo. Per questo la rappresentazione di Euripide costringe la comprensione dello spettatore entro gli stretti orizzonti di una narrazione razionale in modo che lo spettatore non si emozioni, in modo da controllare il Dioniso che si agita dentro di lui. Meglio imprigionare quel Dioniso con la compassione e la commiserazione, con la pietà e con la saggezza filiale virtuosa della quale si compiace Platone perché distrugge le passioni di Dioniso dentro all'uomo.
A Dioniso che risorge dopo lo smembramento del corpo dell'uomo, viene sostituita la pietà per Socrate che viene ucciso perché voleva essere il padrone di Atene. Platone ruba all'uomo la passione di sé stesso e in sé stesso per trasformarla in pietismo e in sottomissione al dramma di chi gli si impone come modello: come padrone.
Scrive Nietzsche:
I contemporanei non mancarono di vedere la stretta relazione di tendenza fra Socrate ed Euripide, e la più eloquente espressione di questa loro perspicacia ci è offerta dalla tradizione ateniese che faceva di Socrate il collaboratore di Euripide. I due nomi erano citati uno accanto all'altro dai sostenitori del buon tempo antico allorché enumeravano i demagoghi della presente epoca, per influsso dei quali l'antica e tetragona virtù fisica e morale degli eroi di Maratona era stata via via sacrificata a un equivoco razionalismo, funesto alle forze del corpo e dell'anima. Su questo tono, mezzo indignato e mezzo sprezzante: la commedia aristofanesca continuò a parlare di questi due uomini con grande orrore dei più giovani, i quali in verità avrebbero volentieri buttato a mare Euripide, ma che non si sentivano mai abbastanza stupiti di vedere Socrate raffigurato da Aristofane come il primo e il maggiore dei sofisti, come lo specchio e il riepilogo di tutte le invenzioni sofistiche. A questo punto non restava per tutta consolazione che mettere anche Aristofane alla berlina come bugiardo e dissoluto Alcibiade della poesia. Senza voler qui difendere Aristofane da questi attacchi, continuerò a dimostrare, appoggiandomi alle opinioni e ai sentimenti del tempo, la stretta affinità esistente tra il genio di Socrate e quello di Euripide; al quale proposito bisogna ricordare soprattutto che Socrate, nemico dell'arte tragica, si asteneva dal prendere parte alle rappresentazioni della tragedia, e andava a mettersi fra gli spettatori solo quando si dava qualche nuovo lavoro di Euripide. Ma 1'accostamento più famoso di questi due nomi è quello che si trova nel responso dell'oracolo di Delfo che indicò Socrate come il più saggio degli uomini, aggiungendo pero che nella gara della saggezza il secondo premio spettava a Euripide.
Terzo in questa lista era il nome di Sofocle, di colui che di fronte a Eschilo doveva vantarsi di dire il giusto, in verità sapendo cosa fosse il giusto. Evidentemente è proprio il grado di chiarezza di questo sapere che accomuna i tre uomini, designandoli come i tre "sapienti" del loro tempo. Ma la parola più acuta per questa nuova e mal udita esaltazione del sapere e dell'intelligenza fu quella detta da Socrate che si trovo ad essere unico a confessare a se stesso di nulla sapere, allorché, peregrinando da filosofo per Atene, nelle sue conversazioni con i maggiori uomini di Stato, oratori, poeti e artisti, dovunque s'imbatteva nella presunzione del sapere. Con stupore s' accorgeva che tutti quegli uomini celebri non avevano vedute giuste o sicure nemmeno sulle loro stesse professioni, che esercitavano solo per istinto. Con questa espressione "solo per istinto", noi tocchiamo il cuore e il nocciolo centrale della tendenza socratica. Con questa il socratismo condanna tanto l'arte quanto la morale esistenti: dovunque il socratismo volga i suoi sguardi indagatori, vede il difetto d'intelligenza e la potenza dell'illusione, e da tale difetto trae la conclusione dell'ultima assurdità e inaccettabilità di tutto ciò che esiste. Muovendo da questo dato, Socrate credette di dover correggere 1'esistenza; lui, e lui solo, si fa avanti con espressione di sprezzo e di superiorità, come il precursore di una civiltà, d'un'arte, d'una morale conformate in modo del tutto diverso, in mezzo a un mondo di cui noi ascriveremmo ad immensa fortuna l'arrivare a toccare con venerazione soltanto un lembo. Ecco l'enorme perplessità che ci assale ogni volta di fronte a Socrate, e che sempre ci stimola a scoprire il senso e le mete di questo che in tutta l'antichità è il personaggio e il fenomeno più perturbante. Chi è costui che solo osò negare l'anima della Grecia che come Omero e Pindaro e Eschilo, come Fidia, come Pericle come Pitia e Dioniso, come il più profondo abisso e la vita più alta: è sicuro della nostra adorazione stupefatta? Che semidio è questo, a cui il coro degli spiriti della più nobile umanità deve gridare: "Ahi! ahi! Tu hai distrutto col tuo pugno possente questo mondo così bello, ed esso rovina, va in pezzi!".
La chiave per spiegare l'anima di Socrate ci è data da quel mirabile fenomeno che va sotto la designazione di "demone di Socrate". In certe particolari condizioni, quando lo straordinario cervello esitava egli acquistava una totale sicurezza grazie ad una voce che in tali momenti gli si manifestava. Questa voce, quando si faceva capire, era sempre per convincerlo ad astenersi. La saggezza istintiva in questo carattere completamente abnorme si mostra solamente per opporsi alla conoscenza consapevole, per impedire questa o quella cosa. Mentre in altri uomini creativi l'istinto è una forza affermativa e creatrice e la coscienza si comporta da critico e da freno, in Socrate invece l'istinto fa da critico e la coscienza da creatore, una vera mostruosità per defectum! E in verità qui constatiamo una mostruosa mancanza di disposizione mistica tanto che si potrebbe definire Socrate come il non mistico per eccellenza; in lui la natura logica è eccessivamente sviluppata per una superfetazione, quanto la saggezza istintiva nel mistico. Ma d'altro lato questo impulso logico che si manifestava in Socrate era completamente incapace di rivolgersi contro se stesso in questo energico e sfrenato fluire della sua logica, egli si rivela una forza naturale che non ritroviamo, con nostro stupore e raccapriccio, s non nelle maggiori energie istintive. Chi ha sentito negli scritti platonici il soffio di divina ingenuità e di sicurezza che animava la condotta della vita socratica, avrà anche sentito che il meccanismo prodigioso del socratismo logico è, per così dire, in moto dietro le spalle di Socrate e che bisogna vederlo attraverso Socrate come attraverso un'ombra. Infatti egli stesso intuiva questo rapporto che si manifesta nella grave serietà con cui dovunque fece sentire e alla fine anche davanti ai suoi giudici, la sua vocazione divina. Contraddirlo su questo punto era tanto impossibile quanto approvare la sua influenza dissolutrice degli istinti. In questo conflitto insolubile, una volta che lui era stato portato davanti al tribunale dello Stato greco, non poteva essere inflitta che un'unica forma di condanna: l'esilio. Sarebbe stato possibile cacciarlo oltre i confini come un essere del tutto enigmatico, non catalogabile, inesplicabile, senza che perciò gli Ateniesi potessero essere accusati dai posteri a giusto titolo di aver compiuto un atto infame. Ma si può dire che lo stesso Socrate, in perfetta chiarezza e senza nessun orrore, abbia fatto in modo che in lui fosse pronunciata non la condanna all'esilio, ma a morte; verso la morte egli andò con la calma che Platone descrive, come l'ultimo dei banchettanti che al primo chiarore dell'alba lascia il simposio per incominciare una nuova giornata; mentre, partito lui, gli altri convitati restano addormentati sulle panche e sul pavimento per sognare di Socrate, il vero servitore di Eros. Il Socrate morente divenne il nuovo ideale, l'ideale mai contemplato prima dalla nobile giovinezza greca; e primo fra tutti Platone, il tipico rappresentante di quella giovinezza, si prosternò davanti a quell'immagine con tutta la devozione ardente della sua anima entusiasta.
Da pag. 72 a pag. 75
All'uomo che vive nella vita, Platone sostituisce il modello Socrate. Il padrone investito dal dio padrone che trasforma in tragedia la vita degli uomini.
Con Platone nasce la tragedia.
Non più la giustizia e le virtù sociali, ma l'inganno e il raggiro divenne con la sofistica il metodo di relazione fra gli uomini. E' il senso della commedia di Aristofane, le Nuvole, in cui la sofistica è indicata come filosofia della truffa e Socrate è dipinto come il truffatore che usa la retorica per piegare il significato delle cose a proprio vantaggio. Come fare soldi truffando. Raggirare l'altro con sottili ragionamenti in modo che l'altro sia sorpreso e non sappia replicare.
Quando questo modo di regolare una società diventa sistema sociale, lo Stato inganna i cittadini e i cittadini, per sopravvivere, devono ingannare lo Stato che erigerà galere contro gli ingannatori che si organizzeranno per non essere puniti per i loro inganni. Perché l'eroe deve sacrificarsi a Maratona se i cittadini truffano lo Stato e lo Stato truffa i cittadini? Per quali valori dei rapporti fra gli uomini vale la pena di morire? Socrate muore per il proprio delirio di onnipotenza. Socrate non ha futuro perché gli inganni non gli hanno permesso di costruire il Dioniso dentro di lui e nessun Ermes giunge in soccorso quando la cicuta consuma la Semele della sua esistenza.
La tragedia dell'esistenza imposta da Socrate e da Platone è la tragedia dell'esistenza umana.
Socrate insultava gli uomini perché gli uomini che interrogava dall'alto della sua sapienza sapevano esercitare un "mestiere" o una professione pur senza essere in grado di descriverla compiutamente a Socrate che, non capendo nulla di quella professione e non avendo l'esperienza, pretendeva che costoro gli spiegassero i meccanismi del loro lavoro traducendo la loro esperienza nell'inesperienza di Socrate usando le parole in cui era abile Socrate.
Dal momento che Socrate non capiva come questi uomini potessero esercitare la loro professione "ignoranti com'erano" certamente la loro professione veniva esercitata per istinto. E' un po' come gli animali ai quali i cristiani attribuiscono le azioni non alla loro intelligenza o al loro calcolo, ma al loro istinto. Una sorta di riflesso condizionato e non una manifestazione della loro intelligenza.
Dal momento che la sofistica usa le parole per ingannare le persone, Socrate pretendeva che i sapienti, coloro che agivano per il bene della città, trasformassero il loro lavoro in parole adatte ad un sofista. Pretendeva che gli uomini si comportassero da sofisti e non da uomini che fanno azioni a beneficio della città.
Questo vale anche e soprattutto per la tragedia che manifesta una struttura emotiva senza condizionare l'individuo a leggere tale rappresentazione chiudendola entro norme sociali o morali predeterminate.
La tragedia introdotta dal socratismo, e fatta propria dal cristianesimo che la somma all'ebraismo, diventa una tragedia di proporzioni immani che coinvolge l'intera società. Oggi c'è una televisione che dice alle persone come pensare e come comportarsi.
Ora che abbiamo visto come nasce la tragedia in Nietzsche non ci resta che continuare per leggere gli effetti e i contenuti della tragedia introdotta da Platone e da Socrate nel tentativo di farsi eleggere come i padroni degli uomini per volontà di un dio.
Uccidendo Dioniso e Apollo dentro agli uomini. Socrate ha fatto nascere la tragedia umana. Nella tragedia sociale, l'inganno si sostituì alla giustizia e le relazioni fra gli uomini furono improntate sul possesso delle persone!
Per il lavoro, le citazioni sono tratte da:
Friedrich Wilhelm Nietzsche, La nascita della tragedia, scritto 1872 Pubblicato da Orsa Maggiore Editrice 1993
Marghera, 03 giugno 2014
Teoria della Filosofia Aperta - Volume tre (alle pagine sulla Nascita della Tragedia)
Teoria della Filosofia Aperta - Volume tre
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Quando un percorso sociale fallisce o esaurisce la sua spinta propulsiva, è bene tornare alle origini. Là dove il pensiero sociale è iniziato, analizzare le incongruenze del passato alla luce dell'esperienza e abbattere i piedistalli che furono posti a fondamento del percorso sociale esaurito. |
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Marghera, 03 giugno 2014 Claudio Simeoni Meccanico Apprendista Stregone Guardiano dell'Anticristo Tel. 3277862784 e-mail: claudiosimeoni@libero.it |
Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.