Cod. ISBN 9788827811764
La Teoria della Filosofia Aperta: sesto volume
Una delle grandi invenzioni di Platone è l'invenzione dell'anima.
Con questa invenzione Platone intendeva impossessarsi degli uomini.
La percezione degli uomini riguarda tutto ciò che rientra sotto i loro sensi. Gli uomini esprimono i loro bisogni e i loro desideri. Gli uomini vivono le loro passioni in un mondo immenso che risponde alle loro passioni mediante strategie di adattamento e di risposta in cui gli Esseri del mondo veicolano le loro passioni.
Gli uomini nascono, desideranti in un mondo di desideri; bisognosi in un mondo di bisogni; vivono la loro necessità di un corpo desiderante che tenta di espandersi in un universo che li contiene e che si espande a sua volta.
Cos'è il bene per l'uomo? E' quanto permette all'uomo di espandersi veicolando sé stesso nel mondo.
Che cos'è il male per l'uomo? Sono gli ostacoli e i limiti che vengono posti all'espansione dell'uomo e alla sua necessità di espansione nel mondo.
Che cos'è la virtù per l'uomo? E' la sua capacità di mediare fra ciò che desidera e ciò che è possibile desiderare in un mondo in cui i corpi vivono di desideri.
Quando si dice che un uomo è virtuoso?
Quando il sé stesso si trasforma in armonia e in relazione ad un mondo che si trasforma a sua volta. La ricerca di un equilibrio continuo fra dare e avere in cui i soggetti che entrano in relazione si modificano continuamente lasciando aperta la possibilità per ulteriori trasformazioni.
Questa pulsione di vita è l'essenza stessa del corpo vivente. Un desiderio che si manifesta attraverso i sensi ma che non rientra come oggetto sotto i sensi perché è espressione dei sensi stessi del corpo vivente.
Un corpo vivente è un corpo fisico attraversato da pulsioni che ne caratterizzano l'esistenza. Il corpo fisico può essere definito come quantità e come forma mentre le pulsioni non hanno forma ma solo quantità che si materializza nell'azione del corpo fisico.
La mancanza di forma del sistema pulsionale del vivente viene sfruttata da Platone per inventarsi una forma da attribuire alle pulsioni. Una forma che chiama "anima" con cui distinguere le pulsioni dal corpo che quelle pulsioni esprime.
Il risultato di questa operazione è che noi non siamo più davanti ad un soggetto che vive nel mondo, ma siamo davanti a due entità che vivono nel mondo e che si riassumono in un solo soggetto impedendo al solo soggetto di rivendicare sé stesso in entrambe le entità in cui Platone ha diviso il singolo soggetto.
Una di queste entità è fisicamente reale: il corpo che abita il mondo. L'altra è una sorta di "sottosistema" del corpo che Platone definisce "anima" e che non essendo definibile per forma e quantità, può essere solo immaginata.
L'immaginazione di Platone procede con l'attribuire a questa entità immaginata, l'anima, quanto lui vuole attribuirle senza che il soggetto, il corpo del vivente, possa discriminare su quanto Platone attribuisce a questa entità immaginaria che Platone mette a condizione dell'esistenza del soggetto.
Ne segue che il soggetto, l'individuo, nel sistema di pensiero di Platone, diventa schiavo della propria anima e, in quanto tale, diventa schiavo di tutti gli attributi che Platone attribuisce all'anima. L'uomo non può più essere ciò che il suo corpo desiderante lo spinge ad essere, ma l'uomo deve attenersi a quanto Platone definisce come bene e come virtù a cui quell'anima, secondo Platone, deve aspirare.
Per Platone, ciò che io sono deve diventare schiavo di ciò che io devo essere.
Platone, che detiene la morale del mio dover essere, diventa il padrone delle mie pulsioni, della mia anima, e pertanto controlla il mio agire nel mondo che si deve adeguare alla sua volontà che manifesta ciò che io devo essere.
Una volta costruito ed imposto il concetto immaginario di anima, chi controlla l'anima controlla anche il corpo perché lo costringe ad agire in funzione a quello che egli ritiene sia la morale dell'anima.
In questo modo d'uomo sarà schiavo con tutto il suo corpo e con tutta la sua anima. In questo modo l'uomo non potrà rifugiarsi in nessun luogo perché i doveri imposti alla sua anima saranno dentro di lui e ne condizioneranno sia le scelte che la veicolazione dei suoi desideri.
Col sistema inventato da Platone la schiavitù cessa di essere una relazione economica fra soggetti sociali per diventare una relazione personale, intima, di reciproca dipendenza fra individui.
Possedere gli individui attraverso il possesso della loro anima per costringere il loro agire in quella, e solo in quella, morale nella quale circoscrivere le possibilità del loro apparato pulsionale.
Scrive Platone:
«Eppure - seguitai -, non abbiamo ancora sviluppato l'argomento delle più grandi ricompense della virtù e dei premi che l'attendono». «Parli di una ben straordinaria grandezza - osservò -, se ci sono altri premi ancor più grandi di quelli già menzionati». «Ma in un piccolo tempo - domandai - che cosa può esserci di grande? E d'altra parte anche tutto il periodo dalla fanciullezza alla vecchiaia, in confronto alla totalità del tempo, sarebbe ben piccola cosa». «Un nonnulla!», esclamò. «E che? Sei davvero convinto che una realtà immortale debba darsi pensiero per un tempo così breve, piuttosto che per l'intero di esso?». «Direi proprio per l'intero - rispose -. Ma perché dici questo?». «Non ti rendi conto - gli dissi - che l'anima nostra è immortale e non conosce corruzione?».
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Che cosa è immortale e non conosce corruzione? Certamente il delirio di onnipotenza che costringe l'individuo a pensare sé stesso in una sorta di eternità capace di superare la contingenza del presente vissuto.
Il delirio di onnipotenza costringe l'individuo a separare le proprie sensazioni dal presente vissuto per proiettarle in un immenso infinito in cui egli si erge a partecipe se non a padrone. Il delirio costringe Platone a pensarsi eterno, immutabile e partecipe di un assoluto di cui egli, il superuomo, delinea la morale e la virtù.
Platone teme la morte e per esorcizzare la morte pensa alla sua anima come immortale ed eterna. Nel pensare alla sua anima come immortale ed eterna tende ad impossessarsi degli individui imponendo agli individui quelle che lui ritiene le virtù. Virtù che non applica a sé stesso, ma che applica agli individui per poter distruggere quella che Platone ritiene sia l'immortalità eterna degli individui. La virtù, definita da Platone solo mediante aggettivi e non mediante le azioni, serve per costringere gli individui a non vivere la propria vita. Serve a Platone per trasformare gli individui in schiavi obbedienti che nella speranza di eternità rinunciano a sé stessi e, con questa rinuncia, ad ogni possibilità di eternità.
Platone non dimostra l'anima come oggetto distinto dal corpo, la dà per scontata. Platone pensa che quanto lui immagina sia, di fatto, un oggetto in sé stesso in quanto non è in grado di immaginare una condizioni che contraddica la sua immaginazione. Non ci sono forse oggetti animati e oggetti inanimati? E, dunque, per Platone deve esiste un oggetto altro, che chiama anima, capace di rendere animato ciò che non è animato e che considera la condizione della forma di tutto l'esistente.
Questa operazione mentale, con cui Platone trasforma in oggettiva una realtà soggettivamente immaginata, è in verità una semplice opinione prodotta da un desiderio privo di con-partecipazione alla vita dell'uomo. No solo Platone afferma la verità di un oggetto che non ricade sotto i sensi, ma a quell'oggetto attribuisce una serie di condizioni alle quali piega la struttura desiderante dell'uomo per poterlo dominare.
Come esistono i mali fisici così, secondo Platone, esistono i mali "dell'anima". Dove i mali dell'anima altro non sono che quelle condizioni morali che mettono in pericolo il dominio di Platone sull'uomo. Non sono i "mali psicologici", ma sono le "cattive azioni", come gli atti di ribellione al tiranno, all'Hitler di turno, che impongono i "sensi di colpa" allo schiavo che non vuole essere sottomesso.
L'affermazione chiave di Platone è: "Non diresti che per ogni realtà…".
Fermo, alto là.
Esiste ciò che chiamiamo realtà, ma l'anima non rientra nella realtà. L'anima rientra nell'immaginazione, non nella realtà. Procedere come se l'anima sia pensata come un dato di realtà separato da un corpo, che è un dato di realtà, significa finire nell'immaginazione con una fallacia.
Io non sono tenuto a descrivere tutti i meccanismi del mondo in cui vivo. Io sono tenuto a vivere il mondo e ad abitare quella conoscenza che il mio corpo costruisce nelle relazioni con il mondo.
Se si afferma che un dato insieme di oggetti sperimentati si riferiscono a qualche cosa che viene definito "anima", è necessario riferire quell'insieme di oggetti al corpo vivente. E' il corpo che manifesta nel mondo quegli oggetti che vengono sperimentati da tutti i corpi simili. Affermare che quegli oggetti siano ascrivibili all'interno del concetto di "anima", non toglie che quegli oggetti non siano manifestati da un corpo e che quegli oggetti non possono essere percepiti e vissuti senza la presenza di un corpo che li manifesta.
Cosa interessa ad un corpo vivente?
Interessa discutere dell'insieme di oggetti attraverso i quali Platone definisce il suo concetto di "anima" o interessa discutere dell'oggetto "anima" il cui scopo è separare quell'insieme di oggetti dal corpo che li manifesta?
Se l'anima è un oggetto in sé, una realtà, perché Platone non definisce quella realtà in sé lasciando al corpo tutti quegli strumenti che Platone separa dal corpo?
Separare l'anima dal corpo allo stesso modo con cui Platone separa il piede dal corpo, l'occhio dal corpo, il cuore e il cervello dal corpo, è un'azione illogica. Noi possiamo dire che un corpo, un corpo umano, esiste senza i suoi piedi? Senza i piedi non è un corpo umano e i piedi non sono un corpo senza essere parte di un corpo. Se io separo oggetti, come gli occhi, il piede, il cuore o il cervello dal corpo, non ho degli oggetti separati. L'occhio non è occhio fuori dal corpo come il piede non è piede fuori dal corpo e un corpo, un corpo umano, non è un corpo vivente senza i piedi, senza gli occhi, senza il cuore e senza il cervello. Un corpo umano può essere pensato come un insieme di parti, ma non può abitare il mondo se non come insieme unico.
Allo stesso modo con cui separando il cuore dal corpo non ottengo due soggetti, ma due non-oggetti, così separando tutte le pulsioni, che Platone rinchiude in quell'insieme che chiama anima, dal corpo che le manifesta noi cessiamo di avere sia le pulsioni come oggetto che un corpo che vive come soggetto nel mondo.
Il mondo agisce sull'uomo. L'uomo si trasforma nel mondo e come è nato, così muore.
Dal momento che si osserva un nascere e un deperire si è portati a considerare l'esistenza come un ciclo di nascita e morte. Preso atto di questo rimane in sospeso l'idea del perché soggettivo che tutto nasce e tutto deperisce.
Perché nasce e muore? Quali cause portano a morire?
Platone non si chiede quali cause portano a nascere. Il nascere è un bene che Platone dà per scontato. E dal "bene" che Platone dà per scontato, Platone guarda con orrore il male che è la morte di quanto nasce e considera come male il percorso di "trasformazione", che chiama "causa della malattia" o "degenerazione" (la ruggine) che porta al deperimento. Il deperire è la condizione della trasformazione. Il come deperire può essere inteso come una condizione soggettiva delle relazioni fra sé e il mondo.
E' sufficiente cambiare le considerazioni soggettive per modificare l'impressione che Platone vuole trasmettere.
Il nascere è il male. E questo nascere come male è stato usato dai cristiani per i quali si nasce nel peccato e si deve vivere nella sofferenza. Ma i cristiani hanno impedito che gli uomini pensassero alla morte come "il bene" altrimenti non avrebbero potuto costringerli a vivere nella sofferenza che è la condizione del bene per il cristiano, conquistato alla nascita, in quanto la sofferenza imposta agli uomini imita la sofferenza di cristo che si compiace della sofferenza degli uomini.
Scrive Platone:
«è dunque il male e il vizio congenito in ogni essere il responsabile della sua morte; e se non fosse esso a distruggerlo nessun'altra cosa potrebbe a sua volta [B] farlo. Infatti, non lo potrebbe il bene, che non causa la dissoluzione di nulla, e neppure ciò che non è né bene né male».
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La risposta di Platone alle cause della dissoluzione e della morte sono assolutamente strumentali ed hanno una funzione di controllo sociale dell'uomo e non hanno nessuna volontà di spiegare o di risolvere una situazione esistenziale.
Le soluzioni di Platone ai problemi dell'uomo e della società fondano l'oscurantismo.
E' il male la causa di tutto quanto opprime l'uomo ed è il male, un male vissuto nelle vite precedenti, la causa del male dell'oggi.
L'oscurantismo inteso nella sua dimensione reale che consiste nell'impedire alle coscienze dell'uomo di penetrare lo sconosciuto che lo circonda, di risolvere i problemi che incontra, di affrontare le contraddizioni della sua esistenza, è voluto da Platone per fini di controllo sociale.
E' il male che degenera la tua anima. Ma il male che "fai" o "avresti fatto" non è un oggetto in sé, non si riferisce ad un insieme di concetti oggettivamente determinati, si riferisce a norme soggettive dettate dal dittatore per i suoi interessi a cui gli uomini devono sottostare rendendosi emotivamente colpevoli qualora le loro condizioni di vita sono pessime. Il dittatore colpevolizza la struttura emotiva degli uomini fissando il proprio dominio su di loro.
Con Platone l'oscurantismo diventa una tecnica di dominio della struttura emotiva dell'uomo che, rinchiusa in una verità, impone le risposte ai quesiti che il dolore dell'uomo sottomesso fa al mondo in cui vive.
L'oscurantismo imposto da Platone è l'oscurantismo cristiano. Dio è la risposta alle condizioni dell'uomo e l'uomo non può trovare le risposte nel mondo in cui vive, ma le può trovare solo nella parola di dio. Dal momento che dio lo ha destinato ad essere uno schiavo, l'uomo deve vivere con con-partecipazione al proprio stato di schiavitù perché, ribellarsi alla condizione imposta da dio o dal risultato delle sue reincarnazioni è FARE IL MALE che distrugge la sua anima.
E come fecero gli Illuministi, davanti all'oscurantismo che si fa regime sociale, non resta altro che la ragione. Con la capacità di descrivere il mondo con cui si riconosce l'estraneità al mondo del dio dei cristiani, alla ragione non resta che tagliare la testa al dio dei cristiani nella figura del re che è re per volontà di dio.
Tagliare la testa al re significa tagliare la testa a Platone che risolve i problemi dell'esistenza attribuendo la causa dei problemi al male che immagina opporsi alla sua volontà di dominio e di controllo sociale.
L'invenzione dell'anima da parte di Platone ha la funzione di legittimare l'invenzione del male e della sofferenza psichica imposta mediante i sensi di colpa ai singoli individui. Il controllo sui singoli individui diventa tanto capillare e sistematico da apparire come una condizione sociale naturale. Sembra che "tutti ragionano nello stesso modo" e, dunque, "questo modo di ragionare è normale". Cessa di essere considerato il frutto dell'educazione, della violenza costrittiva praticata sull'infanzia, per essere pensato come una cosa "naturale" che appartiene alla "natura" dell'uomo.
Tagliata la testa a dio, permane la violenza sull'infanzia che nella testa degli uomini ricostruisce il dio che nella società è stato mutilato. Così, tolto dalla società il controllo di dio, questo controllo viene ricostruito nelle singole teste affinché quel dio possa dominare il singolo individuo come padrone e signore della sua struttura emotiva.
Tagliata la testa a dio che produce il male nella vita dell'uomo, quel dio continua a produrre il male nella struttura psichica delle persone e quel male, chiamato "fede", viene preservato per poter essere riprodotto all'infinito.
Bisogna mantenere il terrore sulla superficie della vita. L'anima non deve morire, deve soffrire eternamente o deve gioire eternamente a seconda dell'obbedienza al dittatore che il "detentore" di quell'anima mette in atto rispetto al suo padrone.
Scrive Platone:
«E allora - ripresi -, nel caso dell'anima non c'è forse qualcosa che la rende cattiva?». «Purtroppo - disse -. Tutti quei mali di cui abbiamo parlato: la disonestà, l'intemperanza, la viltà, l'ignoranza», «Forse che uno di questi mali la dissolve e la porta alla morte? E stai bene attento a non cadere in errore, pensando che l'uomo disonesto e privo di senno, per il fatto stesso d'essere sorpreso in flagrante delitto, muoia per effetto della sua stessa ingiustizia, che è appunto il male dell'anima. E meglio che tu proceda in tale maniera. Come il corpo è consumato, distrutto, e infine ridotto a un non-corpo dal suo male specifico, ossia la malattia, così anche tutte le realtà che poc'anzi citavamo, finiscono nel non-essere a causa del loro male, che le annienta, prima assediandole dal di fuori e poi insediandosi in esse. O non è vero?». «Sì, è vero». «Ebbene, anche l'anima considerala secondo la stessa ottica. Dirai forse che l'ingiustizia che vi alberga e così ogni altro vizio, per il fatto di assedi aria e di fissarsi in essa, la consumano e la logorano fino al punto di disgiungerla dal corpo, portandola alla morte?». «Questo no, assolutamente», affermò. «Ma anche ciò sarebbe assurdo - osservai -, che un male non suo riesca a distruggerla, là dove il suo proprio non è riuscito».
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I mali sono i comportamenti sociali che Platone censura. I "mali" sono la disobbedienza al padrone, al dittatore, all'Hitler di turno.
I "mali" non portano alla morte dell'anima allo stesso modo con cui i "mali" portano alla degenerazione e alla morte del corpo fisico. I "mali" dell'anima sono gli strumenti con cui Platone tortura l'uomo.
I "mali" l'anima danneggiano l'anima, ma non la portano a morte. In questo modo l'uomo sofferente non può cessare di soffrire perché, anche se mette fine alla sua vita, vive la minaccia di un'anima che continua a soffrire per il piacere di un padrone che si compiace di ricattare quell'uomo attraverso gli eterni dolori ai quali la sua anima sarebbe condannata.
Non esiste fuga dalla sottomissione e dall'obbedienza alla morale di sottomissione di Platone perché o la sua anima si compiace di sottomettersi a Platone o la sua anima vive quei mali che la trasformano e la degenerano mantenendo sempre in essere gli effetti dolorosi della disobbedienza.
Scrive Platone:
«A tal punto, o dimostreremo che queste posizioni sono errate, oppure, fintanto che resteranno inconfutate, non potremo sostenere che un'anima possa essere annientata dalla febbre, da qualche altra malattia, o da una mano omicida, neppure se tutto il corpo fosse tagliato in minuti pezzettini; prima di sostenerlo qualcuno dovrebbe fornirci la dimostrazione che attraverso questi accidenti del corpo l'anima in quanto tale è diventata più disonesta e più empia. Nel frattempo, però, non lasceremo a nessuno la possibilità di affermare che un'anima o qualsiasi altro essere possa perire non per effetto del suo male specifico, ma per un male sviluppatosi in altre realtà e che non la riguarda». «Non c'è dubbio - disse -, questo nessuno potrà dimostrarlo; cioè che le anime dei morenti diventano più ingiuste a motivo della morte». «E se uno - aggiunsi -, per polemizzare fino in fondo con le nostre posizioni e per non essere costretto a riconoscere l'immortalità delle anime, sostenesse che al momento della morte uno diventa più malvagio e ingiusto allora dovremo trarne le seguenti conseguenze. Se lui, dicendo ciò, è nel vero, allora l'ingiustizia è un'affezione mortale per chi la contrae, esattamente come lo è la malattia, e chi se ne ammala morirebbe per effetto di essa, perché è nella sua natura d'essere letale. Anzi, chi più gravemente se ne infettasse morirebbe prima, chi meno morirebbe dopo; in ogni caso, però, non si verificherebbe quello che oggi avviene, ossia che il disonesto muore quando qualcun altro, di propria mano, gli fa pagare il fio delle sue malefatte». «Per Zeus! - esclamò -. Non sarebbe più così terribile l'ingiustizia, se davvero portasse alla morte chi la contrae, perché in tal modo lo libererebbe dai mali. Purtroppo, però, ho l'impressione che la cosa stia in tutt'altro modo: l'ingiustizia, appena può, uccide gli altri, e chi ne è affetto lo rende anzi vivace, e oltre a ciò pieno di iniziativa. Come si vede, essa è ben l ungi dall' essere portatrice di morte».
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L'importanza dell'immortalità dell'anima assume, per Platone, uno dei mezzi con cui ricattare l'uomo in ambito sociale. Dopo aver soggettivato il concetto di giustizia e il concetto di ingiustizia, le anime devono esistere e soffrire in modo perenne in funzione dell'ingiustizia e della giustizia.
Se si ammettesse che l'anima muore col corpo, anche gli effetti della giustizia e dell'ingiustizia morirebbero con la morte del corpo, ma dal momento che è necessario controllare i corpi mediante le loro anime, è necessario che l'anima viva eternamente perturbata dalle azioni che Platone considera giuste od ingiuste.
Il disonesto muore. Muore anche la su anima? Allora il disonesto, secondo la logica di Platone, non paga il prezzo della propria disonestà. Ma che cos'è la disonestà se non gli interessi soggettivi imposti da Platone?
La disonestà non è la violazione di una norma oggettiva. Non si dice "Tutti coloro che piantano il coltello nel cuore di un altro sono disonesti!", ma si dice "tutti coloro che non rispettano la morale di Platone sono disonesti". In sostanza per qualcuno piantare il coltello nel cuore di un altro è un gesto onesto, per altri è un gesto disonesto. Al centro del concetto di disonestà non sta la norma violata, ma la violazione della volontà di Platone che finisce per essere la cartina di tornasole che separa ciò che è giusto da ciò che è ingiusto e che finisce per imporsi sull'anima delle cui pene e delle cui virtù Platone parla. Platone se pianta il coltello nel cuore di un contadino non è disonesto perché dalla giustizia di Platone non può che provenire solo un gesto di giustizia. Per questo se Platone pianta il coltello nel cuore del contadino sicuramente il contadino è malvagio e Platone ha fatto un atto di giustizia. Allo stesso modo se Hitler ha fatto i campi di sterminio non è un atto di ingiustizia, ma sicuramente zingari ed ebrei erano malvagi e Hitler ha fatto un atto di giustizia: è Platone che giustifica l'orrore.
L'immortalità dell'anima è l'infinitezza della condanna o delle virtù a cui le persone sono "condannate".
Scrive Platone:
«A questo punto - ripresi -, diamo per acquisito tutto quanto si è detto. Ma, se le cose stanno in questi termini, vedi bene che le anime dovranno essere sempre le stesse, perché, da un lato, non potrebbero diminuire, per il fatto che nessuna di esse vien meno, dall'altro, non potrebbero neppure aumentare. Qualora, infatti, si realizzasse un incremento di qualcuna delle realtà immortali, devi riconoscere che esso deriverebbe da una realtà mortale, e così, alla fin fine, tutto sarebbe immortale». «Giusta osservazione». «Ma - seguitai -, guardiamoci bene dal credere ciò, perché la logica non lo permetterebbe. E neppure dobbiamo credere che per sua autentica natura l'anima sia in sé e per sé una realtà traboccante di varietà, confusione e di differenze». «Che cosa intendi dire?», domandò. «Non è facile - spiegai - che sia immortale una realtà che si riduca ad essere la somma di tante realtà e che non sia dotata di quella sintesi straordinaria di cui ora ci appare dotata l'anima».
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Le anime non muoiono e non nascono.
Una staticità di trasformazione che è funzionale al dittatore. Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto è sottoposto al dittatore in quanto l'anima non si può sottrarre al dittatore né con la nascita né con la morte.
Il numero della anime sono sempre uguali.
Non nascono né muoiono.
Si trasformano, nascita dopo nascita dei corpi, morte dopo morte dei corpi rinascendo in forme corporee diverse e riversandosi in forme di vita predeterminate dalla vite precedenti. Nascono in forma di donna quando le anime sono vili e in forme di uomini quando sono virtuose: che squallida vita ha messo in atto l'anima per nascere come un Platone? Spesso la logica di Platone si riduce ad insulti volgari e gratuiti alle società degli uomini.
Non esiste l'immortalità dell'anima.
Perché Platone, anziché limitarsi in termini sofistici ad affermare che l'anima è immortale non dimostra come egli ha incontrato anime al di fuori dei corpi?
Perché l'immortalità e la persistenza dell'anima imposta da Platone altro non è che un trucco con cui controllare gli uomini. E chi usa trucchi, non dimostra.
Platone dichiara di vedere l'anima nelle stesse condizioni in cui i visitatori vedono il Glauco marino.
Dunque, per Platone l'anima è un oggetto che rientra nei suoi sensi. Platone vede l'anima "incrostata da un'infinità di mali". Solo Platone la vede? E' un'allucinazione? E' una farneticazione? O è un trucco con cui imprigionare l'attenzione del proprio interlocutore?
O Platone vede l'anima o Platone mette in atto un'azione di terrorismo contro le persone che lo stanno ad ascoltare affermando che l'anima esiste.
Pertanto, anche l'affermazione di Platone secondo cui l'anima "…verso il suo amore per il sapere" appartiene all'inganno, alla truffa di Platone. Se l'anima non rientra sotto i suoi sensi mentre lui afferma che vi rientra, anche tutti gli attributi che Platone attribuisce all'anima non sono solo falsi, ma sono finalizzati alla distruzione della libertà dell'uomo per sottometterlo alle farneticazioni di Platone attorno all'anima.
Scrive Platone:
«L'abbiamo vista nelle condizioni in cui i visitatori vedono il Glauco marino?", e cioè senza la possibilità di discernere facilmente la sua forma primitiva, perché delle sue membra originarie alcune sono andate in frantumi, altre son tutte consunte o completamente deformate per effetto delle onde. Addirittura, incrostazioni, conchiglie, alghe e pietre, si sono aggiunte a quelle, sì da farlo assomigliare più a un mostro che a ciò che era in origine. Ecco, anche l'anima noi la vediamo ridotta in queste condizioni, incrostata da un'infinità di mali. E pertanto, caro Glaucone, è là che dobbiamo rivolger l'attenzione». «Là dove>», domandò. «Verso il suo amore per il sapere. Bisogna inoltre fare attenzione agli ideali a cui aderisce e alle compagnie a cui vuole aggregarsi, tenendo conto del suo essere congenere rispetto al divino, all'immortale e all'essere che sempre è. Ancora la si dovrebbe immaginare come apparirebbe se si facesse totalmente attrarre da tali realtà, lasciandosi cavar fuori, da questa sua aspirazione, dal mare in cui si trova, e se si scotesse di dosso i sassi e le conchiglie che ora le sono spuntati dovunque per effetto dei cosiddetti allegri banchetti: tutte queste, invero, sono concrezioni terrestri, sassose e ruvide, cose, appunto, per un' anima che si ciba di terra. Solo allora uno potrebbe finalmente vedere la sua vera essenza, se è molteplice, o semplice, e come sia e quali caratteri possieda. In effetti, a mio giudizio, per ora ci siamo limitati a svolgere un esame adeguato delle condizioni e delle forme che l'anima assume nella vita umana». «Perfetto!», disse lui. «Dunque - ripresi -, nel nostro discorso abbiamo posto in evidenza tutti gli altri temi, ma non abbiamo ancora magnificato (B) né le ricompense, né la fama che toccano alla giustizia, come, a vostro dire, avrebbero fatto Omero ed Esiodo. Tuttavia, noi abbiamo forse scoperto che la giustizia costituisce il bene più prezioso per l'anima in quanto tale, la quale, quindi, deve fare ciò che è onesto, sia che abbia, sia che non abbia l'anello di Gige40' e, oltre a questo anello, anche l'elmo dell' Ade406».
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Platone, dopo essere stato incapace di dimostrare l'oggetto che chiama anima, dal momento che è solo uno strumento emotivo con cui terrorizzare e controllare le persone, procede a definire come controllare le persone attraverso il controllo della loro anima.
La volontà di Platone di legare l'anima al divino, all'immortale, altro non è che un atto di terrore mediante il quale legare l'uomo ad una volontà diversa da sé e alla quale si deve sottomettere. L'uomo è in balia dei suoi desideri perché l'uomo, ogni singolo uomo e donna, sono corpi desideranti e come corpi desideranti desiderano soddisfare i loro bisogni mediante le relazioni che costruiscono con il mondo. Platone vuole distruggere le relazioni dell'uomo con i soggetti del mondo. Vuole conchiudere l'uomo in sé stesso per facilitare il compito del padrone, di ogni padrone, di disporre dell'uomo. Il padrone, il dittatore, l'oligarca diventa il divino a cui l'uomo deve sottomettere la sua struttura desiderante.
La ricompensa che Platone assegna all'obbedienza dell'anima che lui chiama "giustizia" è il "pat, pat", la pacca sulla spalla con cui il padrone si compiace dell'obbedienza e della sottomissione. "Bravo servo obbediente" dice Gesù "Ti ho dato una mina e tu me la restituisci moltiplicata".
Nell'uomo obbediente non ci sono rimorsi di coscienza. Non c'è il rammarico per progetti falliti, per obbiettivi mancati. L'uomo obbediente ha fatto la volontà del padrone e si aspetta che il padrone riconosca la sua dedizione e lo premi. Al padrone non interessa premiare lo schiavo obbediente. L'uomo obbediente che si è fatto schiavo davanti al padrone ha accettato la propria autodistruzione. Ha accettato di essere annientato dal padrone, come un Isacco sulla pira, perché questo piace al padrone. Il padrone non è tenuto a compensare lo schiavo obbediente. Come lo ha usato, ora lo può lasciare, a sua discrezione, nella disperazione.
Per questo la giustizia del dittatore pretende di essere osservata ed ossequiata, ma porta beneficio solo al dittatore, non ai suoi schiavi. Porta beneficio a Platone che si erge a padrone di uomini, ma non agli uomini che obbedendo e sottomettendosi hanno rinunciato ad essere uomini che vivono e desiderano nella loro società.
Platone deve magnificare le ricompense e la fama che spettano a giustizia.
I cristiani hanno capito perfettamente il discorso di Platone e lo riscrivono nelle Lettere degli Apostoli:
"Schiavi, obbedite in ogni cosa ai vostri padroni secondo la carne, non solo quando vi vedono, come per piacere agli uomini, ma con sincerità di cuore, per timore del signore. tutto quello che fate, fatelo di cuore, come per il signore e non per gli uomini, sapendo che riceverete in ricompensa l'eredità dalle mani stesse di dio. E' a cristo signore che voi servite. Chiunque, invece, commette ingiustizia, commetterà secondo l'ingiustizia commessa: non vi sarà accettazione di persone."
Paolo di Tarso, lettera ai Colossesi 3, 22-25
"Servi siate sottomessi con ogni rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli che sono buoni o ragionevoli, ma anche a quelli di carattere intrattabile. poiché piace a dio che si sopportino afflizioni per riguardo verso di lui, quando si soffre ingiustamente. infatti che gloria vi è nel sopportare di essere battuti, quando si ha mancato? Ma se voi, pur avendo agito rettamente, sopportate sofferenze, questo è gradito davanti a dio. Anzi è appunto a questo che voi siete stati chiamati, perchè Cristo pure ha sofferto per voi [e chi glielo ha chiesto? pago i servizi che richiedo, non quelli imposti con la violenza! Nota del redattore], lasciandovi un esempio affinché ne seguiate le orme."
I Pietro 2, 18-21
"Schiavi obbedite ai vostri padroni di quaggiù con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come cristo, non soltanto quando siete sotto i loro occhi, come se doveste solo piacere a uomini, ma come servi di cristo, che fanno di buon cuore la volontà di dio."
Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini 6, 5-6
"Gli schiavi siano sottomessi ai loro padroni in tutto: cerchino di piacere a loro, non li contraddicano, non li frodino, ma si diportino sempre con perfetta fedeltà, per far onore in tutto alla dottrina di dio, nostro salvatore."
Paolo di Tarso, Lettera a Tito 2, 9
"Con gli schiavi – Tutti coloro che sono sotto il giogo della schiavitù stimino i loro padroni degni di rispetto, affinché non si dica male del nome di dio né della sua dottrina. Quelli, invece, che hanno padroni cristiani, non pensino di poterli disprezzare col pretesto che sono fratelli, anzi, li servano con ancor maggior impegno, proprio perché sono credenti e cari a dio. Ecco le cose che devi insegnare e raccomandare."
Paolo di Tarso, lettera a Timoteo 6, 1-2
Platone usa il termine "giustizia", i cristiani "dio"; sinonimi che portano allo stesso significato sociale. Per Platone la giustizia è l'assoggettamento all'oligarca; per i cristiani la giustizia consiste nell'obbedienza a dio. Giustizia, come il dio dei cristiani, determinano le condizioni sociali e quelle condizioni sociali devono essere mantenute perché mantenere quelle condizioni sociali è un atto di "giustizia" o il rispetto del "volere del dio dei cristiani".
Quelle condizioni sociali vanno mantenute anche se si è invisibili agli occhi dell'oligarca, del padrone.
Lo schiavo deve obbedire al padrone anche quando il padrone non vede lo schiavo. Anche quando lo schiavo è in possesso dell'anello di Gige (che rende invisibili) o quando si è in possesso dell'elmo di Ade che conferisce invisibilità a chi lo indossa.
Lo schiavo, per la sua anima, "deve fare ciò che è onesto" dove l'onestà non è un criterio stabilito dallo schiavo, ma dal padrone che chiama quel criterio "il criterio di Giustizia".
In questi termini Paolo di Tarso può dire:
"Gli schiavi siano sottomessi ai loro padroni in tutto: cerchino di piacere a loro, non li contraddicano, non li frodino, ma si diportino sempre con perfetta fedeltà, per far onore in tutto alla dottrina di dio, nostro salvatore." Paolo di Tarso, Lettera a Tito 2, 9
Paolo di Tarso e Platone manifestano lo stesso concetto ritenendo sé stessi dei padroni di schiavi.
Quando la sottomissione porta alla distruzione dell'uomo che desidera essere amato dal suo padrone (nel cristianesimo si parla della "carità di dio"), l'uomo deve pensare che le disgrazie sono un dono degli Dèi, un dono di Giustizia e che ben altri vantaggi lo attendono.
Giustizia, come il dio dei cristiani, non sono oggetti in sé, soggetti viventi, ma sono la somma del volere dell'oligarca, del padrone, del dittatore, dell'Hitler di turno. Chiamalo oligarca, Hitler, dio dei cristiani o giustizia, non cambia la sostanza dei contenuti che identificano il dio dei cristiani, l'oligarca, il Gesù, l'Hitler o Giustizia.
Platone si è preoccupato di trasformare gli Dèi del mito di Omero ed Esiodo nei "dio padroni" di Atene o di Atlantide per produrre l'ulteriore trasformazione nel dio padrone degli ebrei e dei cristiani.
Dopo aver inventato l'anima, ecco Platone sottometterla al dio padrone dei cristiani, al suo concetto di dio padrone di Atene e di Atlantide, a giustizia, all'oligarca, a Gesù, all'Hitler di turno.
Per questa natura l'uomo sottomesso sarà amato dall'Hitler, dall'oligarca, da Gesù, dal dio padrone cristiano. Sarà amato perché fa la volontà del dio dei cristiani, di Hitler, di Gesù, di Platone, del dittatore, dell'oligarca, del padrone. Al contrario, l'uomo che vive la sua vita veicolando nel mondo i suoi desideri, costruendo le sue relazioni e trasformando sé stesso, sarò odiato dal dio padrone cristiano, dall'oligarca, dal padrone, da Hitler, da Gesù e da Platone.
Scrive Platone:
«E a chi gode dell'amore degli dèi, non riconosceremo che tutto quanto gli viene da essi [613 A] gli giunge nella maniera migliore, a meno che non si tratti di un male ineluttabile, derivato da una colpa precedente?». «Certamente».
Pag. 1321
Chi gode dell'amore dell'oligarca, del dio padrone, del dittatore, dell'Hitler, di Gesù e di Platone, gode dell'amore degli Dèi. Peccato che non sia Zeus a dirmelo, ma lo dice il dittatore, l'oligarca, l'Hitler, il Gesù o Platone che fanno dell'odio, per gli uomini che veicolano loro stessi, il fondamento della loro dottrina d'odio.
Scrive Platone:
«Così, dunque, bisogna pensare dell'uomo giusto, quando si trovi in povertà o infermo o in una condizione ritenuta dolorosa: che per lui questa situazione alla fine si rovescerà in un bene o quando ancora è vivo, o da morto. Non accadrà mai, infatti, che gli dèi non si curino di chi vuole sinceramente essere giusto e mette in pratica la virtù per farsi simile a dio, almeno per quanto è possibile ad un essere umano».
Pag. 1321
E in questo modo si possiedono le persone. L'uomo ridotto alla povertà che non può veicolare pe proprie passioni e le proprie emozioni perché ha calato dentro sé stesso la sottomissione nella speranza di garantire un bene alla sua anima, "salvarsi", deve pensare a sé stesso come un individuo che arriverà ad un bene più grande da vivo o meglio, secondo Platone, da morto.
Gli Dèi non si curano di chi accetta il proprio stato di sottomissione. Chi accetta il proprio stato di sottomissione è gradito al dittatore, all'oligarca, ad Hitler, a Gesù, a Platone, al dio padrone, ma non è gradito agli Dèi perché ha rinunciato ad essere egli stesso un dio rinunciando a combattere la battaglia della vita.
Il concetto di anima è stato inventato da Platone per controllare socialmente gli uomini. Per costringerli alla sottomissione promettendo loro doni grandissimi in vita o dopo la morte.
Controllando l'anima, Platone controlla la struttura emotiva dell'uomo. Controlla e alimenta le paure nell'uomo. Controlla e alimenta la sottomissione che rende l'uomo schiavo "con tutto il suo cuore e tutta la sua anima".
Con questo tipo di controllo non solo l'uomo sacrifica sé stesso per la gloria del padrone, dell'oligarca, del dittatore, dell'Hitler, di Gesù, di Platone, del dio padrone cristiano, ma sacrifica alla sottomissione i suoi stessi figli affinché non abbiano un futuro da uomini ma siano costretti ad obbedire ad un padrone, ad un oligarca, ad un dio padrone, a un Gesù, a un Hitler.
L'invenzione dell'anima fa di Platone il più grande criminale della storia umana allo stesso livello di Gesù.
Marghera, 19 agosto 2017
Nota: Il testo da cui son state tratte le citazione è Platone "Tutti gli scritti" a cura di Giovanni Reale ed. Bompiani 2014 traduzione de La Repubblica a cura di Roberto Radice (il numero di pagina alla citazione si riferisce a questo testo).
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Marghera, 19 agosto 2017 Claudio Simeoni Meccanico Apprendista Stregone Guardiano dell'Anticristo Tel. 3277862784 e-mail: claudiosimeoni@libero.it |
Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.