Settimo volume:
cristianesimo, nazi-fascismo, identitarismo e sovranismo
la genesi dell'assolutismo
capitoli del settimo volume della Teoria della filosofia aperta
Per ragionare sui riti misterici delle Baccanti prendo spunto da Henri Jeanmaire per ragionare sul senso del sacrificio e sul senso dello smembramento di Orfeo da parte delle Baccanti.
Il concetto di sacrificio ha effetti nella società a seconda di come il sacrificio viene interpretato nella sua attuazione e nelle sue finalità.
Dioniso viene smembrato dai Titani.
Se noi accettiamo la versione formale, Dioniso muore smembrato e lo smembramento appare una pratica propria delle Baccanti quando, alterata la percezione, deliravano sui monti.
Se smembrare, fisicamente, fosse stata l'attività delle Baccanti, ogni società civile si sarebbe organizzata per distruggere le Baccanti ed impedire che smembrassero membri della società in modo più o meno cosciente. Un po' come successe a Roma dove i riti dionisiaci mettevano in pericolo la coesione sociale e vennero impediti, con un decreto, e con l'uso dell'esercito, da parte del Senato romano.
Appare logico pensare che lo smembramento fosse una rappresentazione rituale e che riproducesse, più o meno teatralmente, lo smembramento di Dioniso.
Scrive Henri Jeanmaire:
Approfondendo questa celebre descrizione, bisogna tener conto che, se l'elemento fantastico in essa appare evidente, in accordo con quanto appena detto sulla visione dionisiaca, esso sta anche alla base del fraintendimento e dell'accentuazione delle caratteristiche di cui talune pratiche e credenze imprescindibili da certi culti di Dioniso offrivano certamente il modello: il sacrificio della vittima per smembramento (paragmos), e la consumazione delle carni crude e del sangue (omophagia); la celebrazione dei riti nel segreto, finto o reale, di una solitudine silvestre, il noto fenomeno della forza muscolare posseduta dal soggetto indotto in stato di trance, le allucinazioni e le autosuggestioni di coloro che prendevano parte a questi riti.
Henri Jeanmaire, Dioniso - Storia del culto di Bacco, Editore Saecula, 2003, p. 74
Lo smembramento era l'atto del pssaggio dell'uomo e della donna in un Dio. Era la rappresentazione della morte del corpo fisico e l'atto attraverso il quale i Titani si riprendono la propria parte del corpo fisico e psichico lasciando all'uomo e alla donna che muore ciò che di divino hanno costruito di sé stessi attraverso le loro emozioni nella loro vita quotidiana.
Nel dionisismo lo smembramento è rappresentazione del fondamento misterico della trasformazione delle persone.
Tutti i nati nella natura, tendenzialmente, attraverso l'esistenza, si trasformano in altrettanti Dèi. Il fine dei nati nella Natura è quella di trasformarsi in Dèi.
Per ottenere questo è necessario vivere coinvolgendo le proprie passioni e le proprie emozioni nella vita quotidiana. E chi è in grado di rappresentare le proprie passioni intrise di tutte le proprie emozioni se non nel delirare che porta l'individuo a separarsi dalla realtà formale in cui una società lo rinchiude con un sistema di doveri? Rinchiudere l'uomo e la donna in un sistema di doveri significa privare quell'uomo e quella donna della possibilità di trasformarsi in un Dio in quanto, il sistema di doveri, impedisce all'uomo e alla donna di veicolare le proprie emozioni nei propri desideri. Rinchiudere l'uomo in un sistema di doveri significa renderlo schiavo di un sistema morale al quale deve sottomettere i suoi desideri sacrificandoli.
L'uomo e la donna nascono e muoiono. Gli Esseri della Natura nascono e muoiono. La morte del corpo fisico avviene sempre per smembramento. I Titani che formano i corpi degli Esseri della Natura si riprendono, ognuno, le loro tensioni e le loro passioni che hanno contribuito a dar forma e tensione a quel corpo fisico.
La rappresentazione dionisiaca dello smembramento noi la incontriamo anche nei confronti di Orfeo di cui si dice che le baccanti fanno a pezzi il corpo di Orfeo e Orfeo arriva nell'Olimpo perché la sua arte ha concentrato le sue emozioni trasformandolo in un Dio. Eratostene cita una tragedia perduta di Eschilo, dice Kern, nella quale Orfeo verrebbe smembrato dalle baccanti, ma la sua arte, nella quale ha riversato le sue emozioni, la lira, accede all'Olimpo. Entra nei cieli e diventa una costellazione.
Kern cita Eratostene (Cirene, 267 a.c. circa – Alessandria d'Egitto, 194 a.c. ):
"[Orfeo] Non onorò più Dioniso, mentre considerò più grande Elio, che egli chiamò anche Apollo; e svegliandosi la notte sul far del mattino, per prima cosa aspettava il sorgere del sole sul monte chiamato Pangeo per vedere Elio; perciò Dioniso, adirato, gli inviò contro le Bassaridi, come racconta il poeta tragico Eschilo: esse lo dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna separatamente; le Muse poi riunitele, le seppellirono nel luogo chiamato Libetra. Non sapendo a chi dare la lira, ritennero giusto che Zeus la collocasse tra gli astri, perché il ricordo di costui e di questi avvenimenti rimanessero tra le stelle, avendo quello dato il proprio assenso, venne disposto in tal modo; tramontando in ogni ciclo stagionale, la costellazione testimonia la sventurata sorte di quello."
(fr. 113 in Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern; traduzione di Elena Verzura. Milano, Bompiani, 2011, p. 99)
Il termine sacrificio non sta ad indicare qualche cosa da sacrificare come noi oggi lo intendiamo, ma sta ad indicare il passaggio dalla forma fisica alla forma divina che avviene quando i Titani smembrano un corpo fisico, che è vissuto con passione, manifestando le proprie emozioni nella propria quotidianità.
Le Baccanti non sacrificano Orfeo, liberano il Dio che Orfeo è diventato.
E' il dilemma di Paolo di Tarso quando, disperato per il suo fallimento esistenziale, afferma:
"Difatti, secondo l'uomo interiore, provo diletto nella legge di Dio, ma vedo nelle mie membra un'altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio: per Gesù Cristo, Signore nostro! Dunque, io stesso, con la mente servo della legge di Dio, ma con la carne servo della legge del peccato."
Paolo di Tarso, Lettera ai Romani 7, 22 - 25
Vivere fra il desiderio negato e il dovere morale, da imporre a sé e agli altri, porta necessariamente all'angoscia che prelude al fallimento dell'esistenza e alla morte del Dio che avrebbe potuto diventare.
L'atto del sacrificio dionisiaco può essere descritto in mille modi e non c'è dubbio che gli apologisti cristiani associassero quell'atto dello smembramento a "sacrifici umani" per negare la componente sacra e simbolica del rito. Come Porfirio, che predicava il vegetarianesimo, condannava la rappresentazione rituale delle baccanti in nome di una sottomissione che negava il diritto di mangiare carne degli animali.
Le baccanti, anche per bocca di Euripide che con Socrate e Platone ne condannava la ritualità e la pratica, erano qualche cosa che sfuggiva alle possibilità del controllo sociale e per questo venivano raccontate in modo tale da suscitare orrore e condanna.
La scena delle Baccanti in Euripide dipinge le donne trasformate in tigri assetate di sangue che con le mani sventrano capre e tori per bere il loro sangue.
I racconti sembrano le cavalcate delle Streghe medioevali, di Wotan e di Arlecchino con un Dioniso che diventa una maschera teatrale.
Euripide ha la necessità di indicare la follia nell'estasi religiosa in contrapposizione ad una società ordinata e sottomessa al dittatore che determina le leggi.
Scrive Euripide mettendo in bocca al mandriano che ha assistito all'arrivo dei gruppi di baccanti:
"Una mandria di buoi guidata avevo poc'anzi al sommo d'una rupe. Il sole scagliava sulla terra ardenti i raggi.
E tre schiere di femmine vid'io. Guida è alla prima Autònoe, tua madre Agave alla seconda, Ino alla terza.
AI sonno abbandonate avean le membra, tutte, poggiate alcune alla frondosa bassa rama d'un pino, altre reclino sopra foglie di quercia aveano il capo, compostamente; e non, come tu dici, ebbre, fra coppe e strepito di flauti, di voluttà segrete invano in traccia per la foresta.
Ora, tua madre udì il muggito dei buoi.
Fra le Baccanti si levò, e gridò che dal sopore scuotan le membra.
Ed esse, dalle ciglia scacciato il greve sonno, in pie' balzarono, giovani e vecchie e vergini non dome, a meraviglia costumate.
E prima sciolsero giù per gli omeri le chiome; e a quelle che slacciate avean le nebridi, ricomposero i nodi; e tutte ai velli variopinti fecero corone di serpi che lambiano a lor le gote.
E quante ancor fresche di parto, prive dei lor pargoli, gonfie avean le mamme, stringendo al seno, fra le braccia, un daino, od i selvaggi cuccioli d'un lupo, di bianco latte lo nutriano; e al capo ghirlande si ponean di quercia, d'ellera, di fiorito smilace.
E, in pugno stretto alcuna il tirso, percotea la rupe, e polle di fredda acqua ne sgorgavano: con la ferula un'altra il suoi batteva, e spicciar vino ne faceva il Dio; e quante brama avean di puro latte, graffiando il suolo con le somme dita, ne attingevano; e giù dai tirsi d'ellera stillavano di miei rivali dolci.
Sì, che se fossi stato lì, se avessi visto, con preci avvicinato avresti il Nume ch'or di vilipendio cuopri.
Noi, bifolchi e pastori, ci adunammo, parlammo, contendemmo. Ed uno, pratico della città, di pronto eloquio, disse: "o voi che in queste sacre alpestri piagge dimora avete, ché non si distoglie la madre di Pentèo dai riti bacchici, per ingraziarci il nostro rei",
Ci parve che bene egli parlasse, e ci appiattammo tra i cespugli e le frondi.
Or, giunta l'ora di celebrare l'orge, i tirsi scossero, Bacco invocando ad alte grida, il figlio di Giove, Bromio. E insieme risonò ogni monte, ogni fiera; ed era tutto un avventarsi, un correre.
Vicino Agave a me passò nella sua corsa.
Per afferrarla, dal cespuglio io balzo dove mi rimpiattavo; ed ella grida: "O mie cagne veloci, ad assalirci son venuti questi uomini: seguitemi, seguitemi: e le man' coi tirsi armate!"
Con la fuga evitammo che le Mènadi ci facessero a brani.
Esse piombarono sopra le greggi che pasceano l'erba, senz'arme in pugno: e n, questa vedevi in due squarciare una mammosa vacca muggente; l'altra lacerare a brani a brani le giovenche: e fianchi e bifidi zoccoli su e giù lanciar vedevansi, e sanguinanti penzolar dai rami.
E i tori violenti, avvezzi al rabido cozzo dei corni, al suoI giacean fiaccati, tratti giù dalle mani innumerevoli delle fanciulle; e in men che tu le palpebre, o re, non serri, fatti erano in pezzi.
Corser poi come uccelli alzati a volo pei bassi campi che lunghesso l'Asopo maturano ai Tebani il pingue grappolo.
E in 'sia, e in Eritria, che sotto il giogo del Citerone sorgono, piombando come nemiche, tutto a sacco posero.
Dalle case rapiano i pargoletti; e quanto si ponean sopra le spalle, o bronzo o ferro, senza alcun legame vi aderia, né cadea sul negro suolo.
E portavano fuoco sopra i riccioli, né le bruciava - , terrazzani corsero furiosi sull'orme delle Mènadi; e fu, signore, un orrido spettacolo: ché di lor sangue tingere le cuspidi non potevano questi; e quelle, i tirsi scagliando, li ferivan, li fugavano, esse donne: ma un Dio le soccorreva.
Poscia tornàr novella mente ai fonti che per esse sgorgar faceva il Nume, e detersero il sangue; e da lor gote lo stillante sudor lambiano i serpi.
Questo Dèmone dunque accogli, o re, qual che egli sia, nella città: ché sommo è in tutto; ed ai mortali, a quel che dicono, donò la vite che sopisce il duolo.
Baccanti, Euripide, tratto da: Henri Jeanmaire, Dioniso - Storia del culto di Bacco, Editore Saecula, 2003, p. 74-77
Il Demone di Platone che possiede le donne e le trasforma in Baccanti. Il Demone distoglie le donne dai telai e le incita a baccheggiare, a partecipare alle orge, sui monti.
Incita le donne a squartare capre, mucche, giovenche e tori e a cibarsi del loro sangue.
Donne che si coprono di serpenti e con i serpenti le baccanti vanno in guerra al seguito di Dioniso anche in Nonno di Panopoli.
I serpenti erano uno dei simboli legato alle Baccanti.
Delle baccanti e del delirio scrive Nietzsche in "La nascita della tragedia":
L'estasi dello stato dionisiaco, abolendo le abituali barriere e i confini della vita, ha un fattore letargico in sé per tutta la sua durata, fattore in cui va sommerso tutto quello che è stato individualmente vissuto nel passato, e questo abisso d'oblio scinde il mondo d'ogni giorno dalla realtà dionisiaca. Ma non appena la realtà giornaliera riaffiora alla coscienza, viene sentita con disgusto per quello che è in realtà: una disposizione ascetica dell'animo a negare la volontà è il frutto di quella circostanza. In questo senso l'uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato un giorno uno sguardo lucido alla realtà delle cose, e ormai provano ripugnanza all'azione; poiché la loro azione non può mutar nulla dell'eterna sostanza delle cose, sentono che è ridicolo o insultante che si chieda loro di rimettere a posto un mondo uscito dai cardini. La conoscenza uccide l'azione, all'azione soccorre il velo dell'illusione: questo è l'insegnamento di Amleto, e non la saggezza a buon mercato del sognatore, che per troppo riflettere, quasi per eccesso di possibilità, non giunge mai all'azione; non la riflessione - no! - ma la vera conoscenza, la vista dell'orribile verità soffoca ogni motivo che spinge all'azione, tanto in Amleto quanto nell'uomo dionisiaco. Allora il conforto non ha più presa; il desiderio si lancia di là da un mondo verso la morte, di là degli stessi dei, l'esistenza è negata e con questa anche il suo splendido rispecchiarsi nella vita degli dei o in un aldilà immortale. Nella consapevolezza della verità, ormai rivelata al suo sguardo, l'uomo non vede, ovunque si volga, che lo spavento o l'assurdo dell'esistenza, adesso comprende il senso simbolico del destino di Ofelia, capisce la saggezza del dio silvestre Sileno: tutto è per lui disgusto.
Nietzsche, Nascita della tragedia, Editore Demetra, 1996, p. 67-68
La visione di Nietzsche delle baccanti altro non è che il desiderio negato dell'uomo e della donna sottoposti a doveri. La società di oggi impone codici morali e chi vive l'oppressione di quei codici morali desidera violare ogni regola, ogni disposizione, sottraendosi a quelle regole (magari buone per altri).
Regole ci sono in ogni mondo, comunque sia percepito, e il delirio delle Baccanti si svolge si in un mondo che, rispetto a quello razionale, appare privo di regole ed obblighi, ma è pieno di regole ed obblighi che impongono doveri a chi quei mondi intende abitare e percorrere.
Chi vede il mondo delle baccanti, nei loro deliri formali, può si pensare che quel mondo lo liberi dallo "schifo" del mondo quotidiano in cui vive, ma il mondo presente in cui vive gli suscita ribrezzo perché egli è ribrezzo per il mondo in cui vive. Il ribrezzo soggettivo coglie il ribrezzo del mondo, lo schifo, che contribuisce ad alimentare con la sua azione.
Fuggire da sé stessi non è possibile se non con la volontà, come usata da Schopenhauer, per annientare sé stessi in quel pessimismo esistenziale che solo la morte può liberare dall'angoscia. La volontà di Schopenhauer porta al suicidio dell'esistenza.
Dioniso e le baccanti sono libertà nel mondo della forma umana come nei diversi mondi in cui i deliri li conducono. Ma quei mondi non producono l'oblio del mondo della forma, del mondo reale, veicolano le emozioni. Plasmano le emozioni delle persone nell'attesa che i Titani compiano l'opera dello smembramento che, producendo la morte del corpo fisico, generano il Dio che hanno costruito nella loro esistenza di deliri razionali o meno.
Marghera, 06 giugno 2023
capitoli del settimo volume della Teoria della filosofia aperta
Sito di Claudio Simeoni
Claudio Simeoni
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Apprendista Stregone
Guardiano dell'Anticristo
Tel. 3277862784
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Ultima formattazione 07 ottobre 2021
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