Jean-Paul Sartre (1905 – 1980)

La fatticità in l'Essere e il Nulla

di Claudio Simeoni

 

Cod. ISBN 9788892610729

 

Teoria della Filosofia Aperta - Volume cinque

 

Il corpo come essere-per-sé: la fatticità in Jean-Paul Sartre

 

Iniziare un tema dal titolo "l'essere per-sé", implica un interesse da parte dell'essere, qualunque essere, di agire in funzione di sé stesso e per sé stesso in un mondo in cui la somma delle coscienze lo qualifica in un mondo-per-sé e in-sé.

Il per-sé del mondo non è il per-sé dell'essere, del singolo soggetto, ma mondo e soggetto interagiscono in maniera conflittuale nel tentativo di trasformare il vissuto dell'essere da un vissuto per-sé ad un vissuto per-altri.

Che un soggetto viva in-sé e per-sé, a prima vista appare del tutto ovvio, ma quando noi dobbiamo pensare ad un essere che viva in-sé e per-sé, significa che molti sono gli esempi che ci costringono a dire che non sempre e non è dato che un essere viva in-sé e per-sé.

E qual è il rapporto dell'individuo, dell'essere, con il mondo? Come quest'essere, che dovrebbe vivere in sé e per sé, pensa il mondo?

Dice Sartre:

Sembra, a prima vista, che le osservazioni precedenti siano all'opposto dei dati del cogito cartesiano. «L'anima è più facile da conoscere che il corpo» diceva Cartesio. E con ciò intendeva fare una distinzione radicale tra i fatti del pensiero accessibili alla riflessione e i fatti del corpo la cui conoscenza deve essere garantita dalla bontà divina. E, di fatto, sembra in un primo tempo che la riflessione ci sveli solo dei puri fatti della coscienza. Senza dubbio su questo piano si incontrano dei fenomeni che sembrano comprendere in se stessi qualche legame con il corpo: il dolore «fisico», il dispiacere, il piacere ecc. Ma questi fenomeni non sono altro che puri fatti di coscienza; si avrà dunque la tendenza a fame dei contrassegni, delle affezioni della coscienza in rapporto con il corpo, senza rendersi conto che si giunge così a togliere irrimediabilmente al corpo la coscienza e che nessun legame potrà più riunire quel corpo che è già corpo-per-altri alla coscienza, da cui si pretende una manifestazione del corpo stesso. Così non bisogna partire da questo punto, ma dal nostro primo rapporto con l'in-sé: dal nostro essere-nel-mondo. Si sa che non c'è affatto da un lato un per-sé e dall' altro un mondo come due totalità chiuse di cui bisognerebbe poi cercare come comunicano fra di loro. Ma il per-sé è per se stesso rapporto con il mondo; negando di se stesso di essere l'essere, fa sì che vi sia un mondo e, superando questa negazione verso le sue possibilità, manifesta i «questi» come cose-utensili. Ma quando diciamo che il per-sé è-nel-mondo, che la coscienza è coscienza del mondo, bisogna stare attenti a non intendere che il mondo esiste di fronte alla coscienza come una molteplicità indefinita di relazioni reciproche, che essa sorvolerebbe senza prospettiva e contemplerebbe senza punto di vista. Per me, questo bicchiere è a sinistra della brocca, un po' indietro; per Pietro, è a destra, un po' avanti. Non è neanche concepibile che una coscienza possa sorvolare il mondo in modo che il bicchiere le sia dato insieme come a destra e a sinistra della brocca, davanti e dietro a essa. E questo non per una stretta applicazione del principio di identità, ma perché questa fusione della sinistra e della destra, del davanti e del dietro, causerebbero lo svanimento totale dei «questi» in seno a un indistinto primitivo. Se, ugualmente, la gamba del tavolo dissimula ai miei occhi gli arabeschi del tappeto, ciò non avviene affatto a causa di qualche finitezza o imperfezione dei miei organi visivi, ma gli è che un tappeto che non fosse né dissimulato dal tavolo, né al di sotto di esso, né al di sopra, né a lato, non avrebbe più nessun rapporto di nessun genere con esso e non apparterrebbe più al «mondo» nel quale c'è il tavolo: l'in-sé che si manifesta sotto l'aspetto del questo ritornerebbe alla sua identità di indifferenza; lo spazio stesso, come pura relazione di esteriorità, svanirebbe. La costituzione dello spazio come molteplicità di relazioni reciproche, infatti, non può effettuarsi se non dal punto di vista astratto della scienza: perciò non può essere vissuta, e non è neanche rappresentabile; il triangolo che traccio sulla lavagna per aiutare i miei ragionamenti astratti è necessariamente a destra del cerchio tangente a uno dei suoi lati, in quanto è sulla lavagna. E il mio sforzo consiste nel superare le caratteristiche concrete della figura disegnata con il gesso, non tenendo più conto della sua orientazione in rapporto a me, più di quanto non tenga conto dello spessore delle linee o dell'imperfezione del disegno. Così, per il solo fatto che c'è un mondo, questo mondo non può esistere senza un orientamento univoco in rapporto a me. L'idealismo ha giustamente insistito sul fatto che la relazione fa il mondo. Ma poiché si poneva sul terreno della scienza newtoniana, concepiva questa relazione come relazione di reciprocità. In questo modo raggiungeva solo concetti astratti di esteriorità pura, di azione e di reazione ecc., e con ciò non coglieva il mondo e non faceva che rendere esplicito il concetto limite di oggettività assoluta. Questo concetto ritornava insomma a quello di «mondo deserto» o di «mondo senza gli uomini» cioè a una contraddizione, poiché solo per una realtà umana c'è un mondo. Così, il concetto di oggettività che tende a sostituire l'in-sé della verità dogmatica con un semplice rapporto di convenienza reciproca tra rappresentazioni, si distrugge da sé, se lo portiamo all' estremo.

Tratto da Jean Paul Sartre, L'Essere e il Nulla ed. Il Saggiatore 2002 pag. 362 – 363

Il mondo non esiste per me, ma io germinando in esso ne prendo coscienza, lo descrivo, lo proclamo. Tuttavia il mondo in cui vivo si è trasformato, producendo anche me, e continua a produrre un infinito numero di me dopo che io non ci sarò. E' il mio corpo che prende atto dell'esistenza del mondo costruendo relazioni nel mondo e in quel momento il mio corpo agisce in sé e per sé perché veicola la pulsione di dilatazione di sé stesso nel mondo, La veicolazione di tale pulsione è la veicolazione della tensione del corpo vivente che non è conosciuto dalla coscienza razionale, da quella definita da Cartesio alla quale Sartre fa riferimento, ma essa è prodotta dal corpo vivente per la sua sopravvivenza.

Non esistono fatti puri della coscienza razionale da svelare, ma la coscienza descrive un mondo con la sua limitatezza e tanto più descrive il mondo tanto più tende a fissare le pulsioni dell'individuo nella sua descrizione finendo per fermare le pulsioni quando queste non sono in sintonia con la sua descrizione del mondo.

L'individuo produce la coscienza razionale, ma ad un certo punto la coscienza razionale tende a fermare lo sviluppo dell'individuo ingabbiando le sue pulsioni e le sue tensioni entro i modelli che la coscienza razionale impone all'individuo.

Da qui la riduzione dei fenomeni che giungono alla coscienza e che secondo Sartre sembrano avere ancora legami con il corpo come il dolore, il dispiacere o la sofferenza. Sono sensazioni residuali che la coscienza non è in grado di sopprimere perché sono il minimo comune fra sé stessa e il corpo per la sua stessa sopravvivenza. Quando queste condizioni residuali persistono e vengono considerate come gli elementi su cui poggiare la propria attenzione nel definire la relazione fra coscienza razione e il corpo, significa che si sono annullate tutte quelle pulsioni del corpo alle quali la coscienza avrebbe dovuto rispondere per espandersi, come la gioia, la felicità, l'esultanza, il godimento e la soddisfazione per aver portato a termine uno o più progetti di modificazione del presente in cui si vive.

Quando Sartre afferma:

Ma quando diciamo che il per-sé è-nel-mondo, che la coscienza è coscienza del mondo, bisogna stare attenti a non intendere che il mondo esiste di fronte alla coscienza come una molteplicità indefinita di relazioni reciproche, che essa sorvolerebbe senza prospettiva e contemplerebbe senza punto di vista.

Tratto da Jean Paul Sartre, L'Essere e il Nulla ed Sansoni 2002 pag. 362

Parte dal presupposto che il mondo sia statico e che la coscienza sia un'entità data a prescindere dal divenire del corpo e dalla sua attività nel mondo in risposta alle proprie pulsioni e alle sollecitazioni del mondo.

Per Sartre è importante se il bicchiere è a destra o a sinistra perché Sartre descrive un mondo, ma a me interessa se la mia mano afferra il bicchiere e se nell'afferrare il bicchiere posso bere e soddisfare il mio bisogno. La differenza fra la vita e la descrizione della vita, che Sartre chiama coscienza, sta tutta là. La definizione di destra e di sinistra presuppone una staticità del modo nella quale agisco per descrivere ma se io, anziché descrivere il mondo vivo nel mondo, le condizioni sulle quali pongo la mia attenzione poco hanno a che vedere con la descrizione del mondo fatta dalla mia coscienza razionale, ma hanno a che vedere con la necessità di soddisfare i miei bisogni. Che poi la mia coscienza razionale intervenga in un secondo tempo affermando che il bicchiere che ho preso stava alla mia destra o alla mia sinistra, dal punto di vista della vita ho già archiviato la mia azione in un passato che ho superato andando oltre.

Se i miei organi visivi sono acuti o sono imperfetti, perché presbite o miope, diversa sarà la mia coscienza. Quando ho una vista acuta descrivo un mondo e ho un'idea del mondo che forgia la mia coscienza razionale, ma a mano a mano che l'età avanza e divento presbite, parte del mondo inizia a scomparire e con quella sparizione si trasforma anche la mia coscienza. Ciò che scompare, perché troppo piccolo, cessa di formare la mia coscienza nel mondo. E questa si riduce. Ridurre da un modello che pensiamo perfetto è l'unica direzione che ricade sotto i nostri sensi in quanto misurabile rispetto a modelli predefiniti o predefinibili. Quando invece iniziamo a ragionare partendo da un modello predefinito considerato perfetto e affermiamo che la struttura pulsionale è in grado di modificarlo ulteriormente espandendolo (superare la sua presunta perfezione) come avvenne quando eravamo bambini che, rispondendo alla coscienza esistenziale separata dalla coscienza razionale, il cogito, di cui parla Sartre, continuavamo a crescere modificando sistematicamente la nostra coscienza razionale, allora la questione si fa spinosa.

Il cristiano, come Sartre, ritiene che l'uomo sia perfetto (e con esso la sua coscienza razionale, il suo cogito) in quanto creato dal dio padrone; chi pensa che gli Esseri della Natura, fra cui l'uomo, agiscono nella vita per costruirsi, non esiste un concetto di perfezione, ma un concetto di trasformazione continua e sistematica ad ogni scelta e ad ogni azione.

Migliorare la perfezione è un concetto innaturale per la coscienza razionale. Ma noi che basiamo la nostra idea sulla coscienza del corpo, sulla coscienza esistenziale da cui la coscienza razionale proviene, sappiamo che non esiste una coscienza razionale perfetta, ma esiste una coscienza razionale in continua modificazione ed espansione sia in quantità che in qualità perché, essendo la coscienza razionale uno strumento con cui il corpo affronta una qualità di contraddizioni quotidiane, essendo queste suscettibili di variazioni in qualità e quantità, la coscienza razionale deve adeguarsi in qualità e quantità.

Se io non prendo atto che il mondo è un insieme di soggetti che vivono per sé stessi e che la mia attività consiste nel perturbare il campo d'azione di tali soggetti per veicolare le mie pulsioni esistenziali, allora, come Sartre, sono costretto a negare l'orientamento univoco del mondo rispetto a me. Sartre, considerando sé stesso al centro dell'attenzione del mondo, non può pensare al mondo se non in relazione a sé stesso. Io, con la coscienza razionale penso il mondo, lo descrivo e ne metto in luce gli aspetti di mio interesse, ma se io penso che tali aspetti siano la realtà del mondo, è bene che mi guardi un po' alle spalle, perché il mondo è vissuto prima di me e continua dopo di me; vive in un insieme di pulsioni di cui solo una minima parte rientra nei miei interessi e nella descrizione che ne fa la mia coscienza razionale. Lo sconosciuto del mondo è infinitamente maggiore dei fenomeni che la mia coscienza razionale è in grado di descrivere e percepire nel mondo e, dunque, pensare che il mondo sia univoco nei miei confronti solo per il fatto che io vivo nel mondo significa negare al mondo le infinite possibilità d'esistenza che io "potrei" considerare nelle mie strategie esistenziali.

Sartre riduce il mondo alla sua realtà. Egli è il dio padrone, la realtà umana. Sola realtà umana.

Dice Sartre:

Ma poiché si poneva sul terreno della scienza newtoniana, concepiva questa relazione come relazione di reciprocità. In questo modo raggiungeva solo concetti astratti di esteriorità pura, di azione e di reazione ecc., e con ciò non coglieva il mondo e non faceva che rendere esplicito il concetto limite di oggettività assoluta. Questo concetto ritornava insomma a quello di «mondo deserto» o di «mondo senza gli uomini» cioè a una contraddizione, poiché solo per una realtà umana c'è un mondo. Così, il concetto di oggettività che tende a sostituire l'in-sé della verità dogmatica con un semplice rapporto di convenienza reciproca tra rappresentazioni, si distrugge da sé, se lo portiamo all'estremo.

Tratto da Jean Paul Sartre, L'Essere e il Nulla ed Sansoni 2002 pag. 363

Il fatto che ci sia una relazione di reciprocità fra me che vivo nel mondo e l'azione del mondo che io percepisco, non è perché il mondo non esiste in sé, ma perché io vivo nel mondo, perturbo il mondo e il mondo agisce e perturba la mia esistenza. Se io parlo di me stesso parlo della reciprocità che vivo nel mondo e non pretendo di cogliere l'immenso del mondo perché è il mondo che mi comprende, non sono il dio padrone che pretende di comprendere il mondo.

Le relazioni del e nel mondo che io non vivo o alle quali non partecipo non sono da me conosciute e descritte né dal mio corpo e tanto meno dalla mia coscienza razionale, ma io devo avere l'idea e la convinzione, pensare al mondo, che il mondo vive senza me. Io non reggo le trasformazioni del mondo, ma abito e sono all'interno delle trasformazioni del mondo. Partecipo al mondo, non lo determino. Il mondo non è deserto perché io non lo abito. Non lo era prima che nascessi, non lo sarà dopo che sarò morto. Le mie relazioni sono deserte solo quando io non abito il mondo; solo quando accetto l'obbedienza e la sottomissione a imperativi che non nascono dalle esigenze del mio corpo. La mia coscienza è deserta nel momento in cui la mia coscienza razionale non si modifica alle sollecitazioni del mio corpo.

L'oggettività non è convenienza, è quanto è diverso da me. Quanto è separato da me pur vivendo in sé stesso e per sé stesso comprendendo i miei passi esistenziali nella sua realtà. La scelta delle mie relazioni, quando è possibile nella realtà, sono scelte che mi convengono. Ma non sempre nella vita posso scegliere; spesso mi adatto e anche questi adattamenti sono quelli più convenienti al mio esistere. Pertanto, l'oggettività è convenienza, le relazioni che vengono costruite dai soggetti sono "convenienti" ai soggetti stessi.

Cosa si distrugge se lo portiamo all'estremo? Solo il soggetto che abita il mondo e che è compreso nel mondo. Solo la coscienza razionale che risolve sé stessa nel nulla al momento della morte del corpo fisico. L'Essere, ogni Essere, nello stadio in cui vive, risolve sé stesso nel nulla, nella fine dello stadio.

I soggetti della Natura abitano un mondo; il mondo dei soggetti della Natura abita una galassia; la galassia in cui abita un mondo con i soggetti della Natura abita un universo: dove sta l'oggettività?

Scrive Sartre:

I progressi della scienza, d'altra parte, hanno condotto a rifiutare questa nozione di oggettività assoluta. Ciò che un De Broglie chiama «esperienza» è un sistema di relazioni univoche da cui l'osservatore non è escluso. E se la microfisica deve reintegrare l'osservatore in seno al sistema scientifico, non lo fa come soggettività pura - questa nozione non ha senso più dell'altra di oggettività pura - ma come un rapporto originale con il mondo, come, un punto, come ciò verso cui si orientano tutti i rapporti considerati. E così, per esempio, che il principio di indeterminazione di Heisenberg non può essere considerato né come una invalidazione, né come una conferma del postulato determinista. Semplicemente, invece di essere puro legame tra le cose, racchiude in sé il rapporto originale dell'uomo con le cose e il suo posto nel mondo. Questo è abbastanza chiaramente indicato, per esempio, dal fatto che non si può far crescere di quantità proporzionali le dimensioni di corpi in movimento senza cambiare le loro relazioni di velocità. Se esamino prima a occhio nudo, e poi al microscopio, il movimento di un corpo verso un altro, mi sembrerà cento volte più rapido nel secondo caso, perché, quantunque il corpo in movimento non sia affatto più vicino al corpo verso il quale si sposta, ha percorso nello stesso tempo uno spazio cento volte più grande. Così la nozione di velocità non significa niente se non è velocità in rapporto a delle dimensioni date di corpi in movimento. Ma siamo noi a decidere di queste dimensioni con il nostro stesso sorgere nel mondo, e bisogna proprio che ne decidiamo noi, altrimenti esse non sarebbero del tutto. Così esse sono relative non alla conoscenza che ne abbiamo, ma al nostro primo impegnarsi nel mondo. E' ciò che esprime perfettamente la teoria della relatività: un osservatore posto in seno a un sistema non può determinare, per mezzo di alcuna esperienza, se il sistema è in riposo o in movimento. Ma questa relatività non è un «relativismo»: non concerne la conoscenza, meglio ancora, implica il postulato dogmatico secondo il quale la conoscenza ci dà ciò che è. La relatività della scienza moderna tende all' essere. L'uomo e il mondo sono degli esseri relativi e il principio del loro essere è la relazione. Ne consegue che la relazione prima va dalla realtà-umana al mondo: nascere, per me, significa dispiegare le mie distanze rispetto alle cose e con ciò fare in modo che ci siano delle cose. Ma, di conseguenza, le cose sono proprio «cose-che-esistono-a-distanza-da-me». Così il mondo mi rimanda quella relazione univoca che è il mio essere e per mezzo della quale faccio in modo che esso si riveli. Il punto di vista della conoscenza pura è contraddittorio: c'è solo il punto di vista della conoscenza impegnata. E questo significa che la conoscenza e l'azione non sono che due facce astratte di una relazione originaria e concreta. Lo spazio reale del mondo è lo spazio che Lewin chiama «odologico». Una conoscenza pura, infatti, sarebbe conoscenza senza punto di vista, quindi conoscenza del mondo posta per principio al di fuori del mondo. Ma ciò non ha senso: l'essere che conosce sarebbe solo conoscenza, perché si definirebbe con il suo oggetto e il suo oggetto svanirebbe nell'indifferenziazione totale dei rapporti reciproci. Così la conoscenza non può essere altro che un nascere implicito a un punto di vista determinato che si è. Essere per la realtà umana è essere-là; cioè «là sulla sedia», «là, a quel tavolo», «là, in cima a quella montagna, con quelle dimensioni, quell'orientamento ecc.». E' una necessità ontologica. Ma bisogna ancora capirei bene. Infatti questa necessità appare tra due contingenze: da un lato, è necessario che io sia sotto forma di essere-là, quindi è del tutto contingente che io sia, perché non sono il fondamento del mio essere; dall'altra, se è necessario che io sia implicato in questo o quel punto di vista, è contingente che io lo sia precisamente in questo, escludendone ogni altro. Questa duplice contingenza, che comporta una necessità, l'abbiamo chiamata la fatticità del per-sé. E l'abbiamo descritta nella seconda parte di quest' opera. Abbiamo dimostrato allora che l'in-sé, annullato e inghiottito nell'avvenimento assoluto che è l'apparizione del fondamento o nascimento del per-sé, rimane in seno al per-sé come la sua contingenza originale. Così il per-sé è sostenuto da una continua contingenza che riprende a sua volta e alla quale si assi- mila senza poterla mai sopprimere. Il per-sé non la trova in sé in nessuna parte, non può percepirla né conoscerla, neanche mediante il cogito riflessivo, perché la supera sempre verso le sue possibilità e non incontra in se stesso nient' altro che il nulla che deve essere.

Tratto da Jean Paul Sartre, L'Essere e il Nulla ed. Il Saggiatore 2002 pag. 363 – 365

E' la dimensione dell'onnipotenza di dio che imprigiona il modo di pensare di Sartre. Relatività e assolutismo nel suo modo di pensare sono uguali. Lo stesso principio di indeterminazione di Heisenberg viene scoperto dopo che è stato vissuto. La coscienza razionale misura gli oggetti, ma non vive gli oggetti. Non costruisce delle relazioni con gli oggetti e gli oggetti stessi sono, come dice Sartre, corpi senza determinazione e senza scelte d'azioni perché la coscienza è riconosciuta solo a sé stesso, al soggetto che parla e non al corpo del soggetto che ascolta. Il soggetto che ascolta, come la particella osservata da Heidelberg, è corpo muto che varia la sua posizione in base alla propria energia.

Solo che queste affermazioni vanno a cozzare con le affermazioni di Epicuro: vogliamo considerare la volontà come scelta, nella sua oggettività, di quella particella? E se consideriamo la volontà di scelta della particella nella sua oggettività, non dobbiamo considerare l'esistenza di una coscienza che non essendo razionale (non parla) appartiene comunque alla sua esistenza di particella?

La difficoltà di Sartre è la continua ricerca di separazione fra la coscienza razionale e il corpo vivente nel tentativo di sottomettere il corpo alla coscienza razionale esattamente come Platone e i cristiani sottomettono il corpo all'anima del loro padrone.

La mia coscienza razionale, secondo Sartre, esamina il corpo che osservo. Ma il mio corpo che cosa sta esaminando in relazione con quella particella? E la particella come sta esaminando il mio corpo? Se io guardo l'abisso, l'abisso mi guarda, dice Nietzsche. Ma se io guardo il lupo, il lupo mi guarda. Cosa pensa il lupo? Cosa dice la sua coscienza? Quali relazioni emotive si costruiscono fra io che guardo e lui che a sua volta mi guarda? Come agisce o come può essere pensato il principio di indeterminazione di Heidelberg se applicato alla coscienza razionale, prodotto della coscienza esistenziale, prodotta da un corpo che con le sue azioni abita il mondo, nella velocità di modificazione di sé stessa mentre viene osservata? Come si modifica il corpo, la coscienza esistenziale e la coscienza razionale del cogito tanto cara a Sartre?

Lui non ha coscienza, dice Sartre, ha solo corpo. E' un cadavere che io posso guardare, ma non posso considerarlo una coscienza anche se quel corpo è psichico. Peccato che quel corpo agisca e che quelle azioni perturbano il mio mondo costringendomi ad agire a mia volta e costringendomi a considerare sia l'insieme da cui quelle azioni scaturiscono che il fine che quelle azioni perseguono. Non posso conoscere le intenzioni razionali, ma posso conoscere gli effetti di quelle azioni egli effetti sono i fini di quelle azioni. A me non interessa se chi fa le azioni ha coscienza razionale degli effetti del suo agire: lo può chiedere ad un uomo un giudice al processo, ma non lo si chiede al cane, alla volpe, al lombrico, all'albero o alla faina. A me non interessano le loro intenzioni. Le intenzioni vengono manifestate dall'uomo con cui posso discutere; a me interessano solo gli effetti e gli effetti sono oggetto del giudizio che la mia coscienza esistenziale emana mettendo in atto delle azioni di adattamento soggettivo a quelle azioni. Poi, magari la coscienza razionale giustificherà e argomenterà, ma quando io sono in acqua e sto affogando la coscienza razionale sparisce ed entra in gioco la coscienza esistenziale che mette in atto azioni, più o meno efficaci, per assicurare la mia sopravvivenza. La sopravvivenza di un corpo.

La coscienza razionale cerca di descrivere la velocità con cui mi sottraggo alla situazione di annegamento, ma alla coscienza esistenziale interessa che io mi sottragga da quella situazione. La coscienza razionale, che piace a Sartre, descrive un mondo, lo misura e lo quantifica salvo ignorare l'immensità del mondo che la sua misurazione non è in grado di comprendere. La coscienza esistenziale di un corpo che abita il mondo mette in atto strategie adattative che attivano meccanismi che la coscienza razionale ignora.

L'uomo usava il principio di galleggiamento milioni di anni prima che Archimede lo definisse. L'uomo usava la plasticità cerebrale ben prima che la scienza ne scoprisse il meccanismo. L'uomo usava il cervello nello stomaco ben prima che la scienza prendesse atto della sua esistenza e così i neuroni specchio. La mia coscienza esistenziale, il mio corpo che abita il mondo non necessita di descrivere il mondo perché agisce nel mondo rispondendo alle sollecitazioni del mondo mentre la coscienza razionale, l'unica coscienza che Sartre prende in considerazione, si limita a misurare il mondo in una dimensione che trascendendo la vita tenta di imprigionare la vita in una prigione soffocante.

La conoscenza è l'atto di trasformazione del mio corpo in relazione al mondo in cui vivo. Non c'è conoscenza senza trasformazione emotiva. Non c'è sedimentazione della conoscenza se le azioni che metto in atto nel mondo non vengono riempite di passione e non travolgono la mia coscienza razionale e non la costringono a rimodularsi comprendendo il nuovo. Io non sono "là sulla sedia" o "là a quel tavolo". Io uso la sedia e il tavolo esattamente come osservo gli oggetti soggettivando il loro spostamento nello spazio e interagisco con loro perché la loro azione condiziona l'azione del mio corpo. E' il mio corpo che si siede o sta a tavola: la coscienza razionale descrive una frazione di ciò che crede di conoscere. Io sono a tavola con tutto il corpo. Sono a tavola con un infinito numero di cellule e dentro ho un infinito numero di batteri e di virus che stanno a tavola e tutto questo, dentro di me, costruisce delle relazioni dialettiche che producono trasformazioni continue. Dire che sono a tavola significa ridurre una realtà ad un frammento semplificato in cui viene rinchiusa l'immensa attività di tutto ciò che l'affermazione misera del "sto a tavola" tende ad ignorare. Io posso dire di stare seduto a tavola per fare un discorso e sviluppare un ragionamento, ma quando dico in filosofia che la coscienza determina la mia posizione nell'essere seduto a tavola significa che la filosofia vuole fermare in un'immagine semplice l'immensa modificazione che in quel momento si sta svolgendo dentro di me e di cui la mia coscienza razionale non sarà mai a conoscenza ma io, la mia coscienza esistenziale, sarà modificata da ogni relazione interna che viene messa in atto. Ed è tanto più importante questo discorso in quanto la coscienza esistenziale è sempre intervenuta ogni volta che era in atto la necessità non solo di uscire dall'annegamento nel fiume, o quando usavo il principio di galleggiamento ignorato dalla coscienza razionale, ma soprattutto quando le specie, uscendo dal brodo primordiale si sono adattate al divenire della vita producendo la diversificazione delle specie, di ogni specie della Natura. E se ha potuto intervenire in momenti così importanti dell'esistenza della vita, lo ha potuto fare perché, ignorata o non ignorata dalla coscienza razionale, la coscienza esistenziale del mio corpo agisce in ogni istante.

Sartre dice che l'in-sé rimane in seno al per-sé come la sua contingenza originale.

Tutta la difficoltà del pensiero sartriano passa attraverso l'idea di qualche cosa di "originario", annunciato e non definito.

Secondo Sartre l'in-sé è uno stato contingente dell'essere che continua una ricerca del per-sé che non può essere percepita, né conosciuta, nemmeno attraverso il cogito riflessivo perché il per-sé sfugge alla coscienza razionale che di contingenza in contingenza "procede?" verso nuove possibilità non incontrando altro che il nulla che deve essere.

Sartre, prigioniero della creazione del dio padrone, nella ricerca di sé stesso vive una serie di stati contingenti in una perenne ricerca di sé stesso senza trovarsi mai fino ad annullare il suo essere (ciò che egli è).

Questa è la condizione a cui porta il pensiero creazionista. Nel tentativo di legittimare il creazionismo, Sartre scopre di vivere in una situazione contingente alla quale sfugge continuamente la realtà del per-sé quale oggetto creato dal suo dio padrone.

A questo discorso sartriano si oppone Il Libro dell'Anticristo per cui ogni soggetto vive sì la contingenza dell'attimo come relazione fra sé e il mondo, ma tale contingenza modifica il soggetto (e il mondo) e lo trasforma in una continua sospensione del "se". "Se" che è inteso come congiunzione della trasformazione del soggetto fra un passato fagocitato e un oltre a cui il soggetto tende per successive trasformazioni. Dove la trasformazione del soggetto in Sé e per-Sé si rappresenta nella sua totalità in ogni istante presente della sua esistenza modificandosi in ogni sospensione di "Sé" nel passaggio fra il presente vissuto e l'oltre in cui spinge la sua volontà. Il "Sé" o, se si preferisce, il "per-Sé" si realizza con la fine dei mutamenti dello stato in cui il soggetto è: la fine del suo corpo fisico.

Nel libro dell'Anticristo si dice che il soggetto percorre il sentiero del Se (congiunzione) per giungere al "Sé", inteso come "ciò che si è" e oltre il quale, nello stato fisico in cui si vive, non ci sono più trasformazioni: si giunge al trionfo del soggetto che si realizza nella morte del corpo fisico. In quella visione hegeliana in cui l'Essere risolve la contraddizione della propria esistenza nel nulla per poter continuare ad essere. Ma il Libro dell'Anticristo non afferma qualche cosa che possa essere pensato come un modello originario. Perché non esiste un modello di uomo o di qualunque specie della Natura. Non esiste creazione nel Libro dell'Anticristo. E' la materia stessa che diventa cosciente e che attraverso le proprie qualità tende ad espandersi nell'inconscio in cui è venuta in essere costruendo condizioni affinché altri inconsci vengano in essere.

Mentre nel Libro dell'Anticristo la vita del soggetto è una continua modificazione di sé stessi attraverso le proprie attività nel mondo, per cui la coscienza esistenziale e la coscienza razionale assumono un ruolo preciso nelle strategie d'esistenza, in Sartre esiste solo il cogito cartesiano che identifica come coscienza.

Sartre parte dall'idea creativista dell'uomo. L'uomo platonico che cerca sé stesso nella continua e ossessiva ricerca del modello creato dal demiurgo. Nel far questo l'uomo dimentica la propria esistenza e le necessità della trasformazione che può mettere in atto attraverso le relazioni nella sua esistenza.

L'uomo che si costruisce, in Sartre non esiste. Sartre disquisisce sulla reazione del dio padrone in quella creazione ha l'idea fissa su quel "primitivismo" che è l'uomo come apparirebbe, secondo Sartre, sulla terra dopo la creazione del dio padrone e che nella contingenza dell'in-sé non trova mai il per-sé, ma solo il nulla di sé stesso in una vita autodistrutta.

Un ultimo appunto: non esiste un corpo vivente che viva in-Sé. Senza un mondo che costruisca le condizioni per cui egli può germinare, ogni discorso è insensato. Infatti, il discorso del per-sé è un discorso creativista in cui il corpo vivente non è venuto in essere in un mondo che ha determinato le condizioni affinché potesse germinare, ma è creato dal dio padrone da fuori della realtà del mondo così che il corpo del vivente appaia come un oggetto estraneo ed esterno al mondo.

Marghera, 01 marzo 2015

NOTA: utilizzato:

Jean Paul Sartre, L'Essere e il Nulla editore il Saggiatore 2002

 

Teoria della Filosofia Aperta - Volume cinque

 

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Marghera, 09 febbraio 2015

Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

Tel. 3277862784

e-mail: claudiosimeoni@libero.it

La Teoria della Filosofia Aperta

Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.