L’Enciclica Spe Salvi
di Joseph Aloisius Ratzinger
COMMENTATA!
LETTERA ENCICLICA SPE SALVI
DEL SOMMO PONTEFICE [cattolico]
BENEDETTO XVI AI VESCOVI
Cod. ISBN 9788891185815
Se a qualcuno interessa il libro in carta
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Vai all'indice generale commento enciclica Spe Salvi di Ratzinger.
1. « SPE
SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai
Romani e anche
in virtù
della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un
presente
faticoso,
può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta
noi
possiamo
essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del
cammino. Ora, si
impone
immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter
giustificare
l'affermazione
secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c'è, noi siamo
redenti? E
di quale tipo di certezza si tratta?
Speranza, fede e
patologia psichiatrica!
2. Prima di
dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite, dobbiamo
ascoltare
sembrano
interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla «
pienezza della fede »
(10,22) la
« immutabile professione della speranza » (10,23). Anche quando la Prima
Lettera di
Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una
risposta circa il logos – il senso e la
ragione – della
loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede ». Quanto sia
stato
determinante
per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza
del loro
incontro con Cristo, fossero « senza speranza e senza Dio nel mondo » (Ef 2,12).
Naturalmente
egli sa che essi avevano avuto degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i
loro
dèi si
erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna
speranza.
Nonostante
gli dèi, essi erano « senza Dio » e conseguentemente si trovavano in un mondo
buio,
davanti a
un futuro oscuro. « In nihil ab nihilo quam cito recidimus » (Nel nulla
dal nulla quanto
presto
ricadiamo) 1 dice un epitaffio di quell'epoca – parole nelle quali appare senza
mezzi termini
ciò a cui
Paolo accenna. Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete «
affliggervi
come gli
altri che non hanno speranza » (1 Ts 4,13). Anche qui compare come
elemento distintivo
ma sanno
nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è
certo come
soltanto
una « buona notizia » – una comunicazione di contenuti fino a quel momento
ignoti. Nel
nostro
linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo « informativo », ma
« performativo
». Ciò
significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono
sapere, ma è
una
comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo,
del futuro, è stata
spalancata.
Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova.
3. Ora, però, si impone la domanda:
in che cosa consiste questa speranza che, come speranza, è «
redenzione
»? Bene: il nucleo della risposta è dato nel brano della Lettera agli
Efesini citato
poc'anzi:
gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano
« senza Dio
nel mondo
». Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza.
Per noi
che viviamo
da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il
possesso
della
speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più
percepibile.
L'esempio
di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa
significhi
incontrare
per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all'africana Giuseppina
Bakhita,
canonizzata
da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la
data
sangue e
venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò
al servizio
della madre
e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue;
in
conseguenza
di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu
comprata da un
mercante
italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata
dei mahdisti,
Bakhita
venne a conoscere un « padrone » totalmente diverso – nel dialetto veneziano,
che ora
aveva
imparato, chiamava « paron » il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad
allora aveva
conosciuto
solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la
padroni, il
Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona.
Veniva a
sapere che
questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la
amava.
Anche lei
era amata, e proprio dal « Paron » supremo, davanti al quale tutti gli altri
padroni sono
essi stessi
soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo
Padrone
Padre ».
Ora lei aveva « speranza » – non più solo la piccola speranza di trovare
padroni meno
crudeli, ma
la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io
sono
attesa da
questo Amore. E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa
speranza lei
era «
redenta », non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che
Paolo intendeva
quando
ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo –
senza
speranza
perché senza Dio. Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si
rifiutò; non era
disposta a
farsi di nuovo separare dal suo « Paron ». Il 9 gennaio 1890, fu battezzata e
cresimata e
ricevette
la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. L'8 dicembre
1896, a
Verona,
pronunciò i voti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora –
accanto ai suoi
sollecitare
alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio
di Gesù
Cristo, sentiva
di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero
sé; questa
speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.
Il concetto di speranza basata
sulla fede nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva
4. Prima di
affrontare la domanda se l'incontro con quel Dio che in Cristo ci ha mostrato
il suo
Volto e
aperto il suo Cuore possa essere anche per noi non solo « informativo », ma
anche «
la speranza
che esso esprime, torniamo ancora alla Chiesa primitiva. Non è difficile
rendersi conto
che
l'esperienza della piccola schiava africana Bakhita è stata anche l'esperienza
di molte persone
picchiate e
condannate alla schiavitù nell'epoca del cristianesimo nascente. Il
cristianesimo non
aveva
portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte
cruente,
aveva
fallito. Gesù non era Spartaco, non era un combattente per una liberazione
politica, come
Barabba o
Bar-Kochba. Ciò che Gesù, Egli stesso morto in croce, aveva portato era qualcosa
di
totalmente
diverso: l'incontro col Signore di tutti i signori, l'incontro con il Dio
vivente e così
l'incontro con
una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per
questo
trasformava
dal di dentro la vita e il mondo. Ciò che di nuovo era avvenuto appare con
massima
evidenza
nella Lettera di san Paolo a Filemone. Si tratta di una lettera
molto personale, che Paolo
scrive nel
carcere e affida allo schiavo fuggitivo Onesimo per il suo padrone – appunto
Filemone.
Sì, Paolo
rimanda lo schiavo al suo padrone da cui era fuggito, e lo fa non ordinando, ma
pregando:
Forse per
questo è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre;
non più
però come
schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo » (Fm 10-16).
Gli uomini
che,
secondo il loro stato civile, si rapportano tra loro come padroni e schiavi, in
quanto membri
In virtù
del Battesimo erano stati rigenerati, si erano abbeverati dello stesso Spirito
e ricevevano
insieme,
uno accanto all'altro, il Corpo del Signore. Anche se le strutture esterne
rimanevano le
non hanno
una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20),
ciò è tutt'altro
che un
semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene
riconosciuta dai
cristiani
come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la
quale si
trovano in
cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata.
5. Dobbiamo aggiungere ancora un
altro punto di vista. La Prima Lettera ai Corinzi (1,18-31) ci
mostra che
una grande parte dei primi cristiani apparteneva ai ceti sociali bassi e,
proprio per
questo, era
disponibile all'esperienza della nuova speranza, come l'abbiamo incontrata
nell'esempio
proprio
anche loro vivevano « senza speranza e senza Dio nel mondo ». Il mito aveva
perso la sua
credibilità;
la religione di Stato romana si era sclerotizzata in semplice cerimoniale, che
veniva
eseguito
scrupolosamente, ma ridotto ormai appunto solo ad una « religione politica ».
Il
modi nelle
forze cosmiche, ma un Dio che si potesse pregare non esisteva. Paolo illustra
la
problematica
essenziale della religione di allora in modo assolutamente appropriato, quando
2,8). In
questa prospettiva un testo di san Gregorio Nazianzeno può essere illuminante.
Egli dice
che nel
momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse
la fine
dell'astrologia,
perché ormai le stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo.2 Di
fatto, in
questa
scena è capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è
nuovamente in
auge anche
oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva
governano
il mondo e l'uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l'universo; non le
leggi
conosciamo
questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l'inesorabile potere degli
elementi
in tutto e
contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno
Spirito che in
Gesù si è
rivelato come Amore.3
Filosofi, pastori e i
disperati dei salmi in Ratzinger!
6. I sarcofaghi degli inizi del
cristianesimo illustrano visivamente questa concezione – al cospetto
del
filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere, non si
intendeva una difficile
disciplina
accademica, come essa si presenta oggi. Il filosofo era piuttosto colui che
sapeva
insegnare
l'arte essenziale: l'arte di essere uomo in modo retto – l'arte di vivere e di
morire.
Certamente
gli uomini già da tempo si erano resi conto che gran parte di coloro che
andavano in
giro come
filosofi, come maestri di vita, erano soltanto dei ciarlatani che con le loro
parole si
procuravano
denaro, mentre sulla vera vita non avevano niente da dire. Tanto più si cercava
il vero
per la
prima volta a Roma, sul sarcofago di un bambino, nel contesto della
risurrezione di Lazzaro,
viandante,
proprio del filosofo. Con questo suo bastone Egli vince la morte; il Vangelo
porta la
verità che
i filosofi peregrinanti avevano cercato invano. In questa immagine, che poi per
un lungo
periodo
permaneva nell'arte dei sarcofaghi, si rende evidente ciò che le persone colte
come le
solo chi è
in grado di fare questo, è un vero maestro di vita. La stessa cosa si rende
visibile
nell'immagine
del pastore. Come nella rappresentazione del filosofo, anche per la figura del
pastore
la Chiesa
primitiva poteva riallacciarsi a modelli esistenti dell'arte romana. Lì il
pastore era in
genere
espressione del sogno di una vita serena e semplice, di cui la gente nella
confusione della
grande
città aveva nostalgia. Ora l'immagine veniva letta all'interno di uno scenario
nuovo che le
Il vero
pastore è Colui che conosce anche la via che passa per la valle della morte;
Colui che anche
sulla
strada dell'ultima solitudine, nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina
con me
l'ha vinta
ed è tornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con Lui,
un
passaggio
lo si trova. La consapevolezza che esiste Colui che anche nella morte mi
accompagna e
con il suo «
bastone e il suo vincastro mi dà sicurezza », cosicché « non devo temere alcun
male »
(cfr Sal
23 [22],4) – era questa la nuova « speranza » che sorgeva sopra la vita dei
credenti.
Ratzinger e la fede come
oggetto in sé!
7. Dobbiamo ancora una volta
tornare al Nuovo Testamento. Nell'undicesimo capitolo della Lettera
tra gli
esegeti, nella quale sembra riaprirsi oggi la via per una interpretazione
comune. Per il
momento
lascio questa parola centrale non tradotta. La frase dunque suona così: « La
fede è
del
Medioevo era chiaro che la parola greca hypostasis era da tradurre in
latino con il termine
substantia. La traduzione latina del testo, nata nella Chiesa
antica, dice quindi: « Est autem fides
sperandarum
substantia rerum, argumentum non apparentium »
– la fede è la « sostanza » delle
cose che si
sperano; la prova delle cose che non si vedono. Tommaso d'Aquino,4 utilizzando
la
terminologia
della tradizione filosofica nella quale si trova, spiega questo così: la fede è
un «
la ragione
è portata a consentire a ciò che essa non vede. Il concetto di « sostanza » è
quindi
modificato
nel senso che per la fede, in modo iniziale, potremmo dire « in germe » –
quindi secondo
la «
sostanza » – sono già presenti in noi le cose che si sperano: il tutto, la vita
vera. E proprio
perché la
cosa stessa è già presente, questa presenza di ciò che verrà crea anche
certezza: questa «
cosa » che
deve venire non è ancora visibile nel mondo esterno (non « appare »), ma a
causa del
fatto che,
come realtà iniziale e dinamica, la portiamo dentro di noi, nasce già ora una
qualche
concetto di
« sostanza », nel contesto della sua visione della fede, non diceva niente. Per
questo
soggettivo,
come espressione di un atteggiamento interiore e, di conseguenza, dovette
naturalmente
comprendere
anche il termine argumentum come una disposizione del soggetto. Questa
interpretazione
nel XX secolo si è affermata – almeno in Germania – anche nell'esegesi
cattolica,
cosicché la
traduzione ecumenica in lingua tedesca del Nuovo Testamento, approvata dai
Vescovi,
dice: « Glaube aber ist: Feststehen in dem, was man
erhofft, Überzeugtsein von dem, was man nicht
valore soggettivo
di « convinzione », ma quello oggettivo di « prova ». Giustamente pertanto la
recente
esegesi protestante ha raggiunto una convinzione diversa: « Ora però non può
più essere
non è
soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono
ancora totalmente
assenti;
essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa
realtà presente
quelle
presenti e le presenti in quelle future.
il versetto
34 del decimo capitolo della Lettera agli Ebrei che, sotto l'aspetto
linguistico e
(hyparchonton
– Vg: bonorum), sapendo di possedere beni migliori (hyparxin –
Vg: substantiam) e
appunto la
base, la « sostanza » per la vita sulla quale si conta. Questa « sostanza », la
normale
sicurezza
per la vita, è stata tolta ai cristiani nel corso della persecuzione. L'hanno
sopportato,
perché comunque
ritenevano questa sostanza materiale trascurabile. Potevano abbandonarla,
perché
avevano
trovato una « base » migliore per la loro esistenza – una base che rimane e che
nessuno
può togliere.
Non si può non vedere il collegamento che intercorre tra queste due specie di «
sostanza »,
tra sostentamento o base materiale e l'affermazione della fede come « base »,
come «
sostanza »
che permane. La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento
sul
quale
l'uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l'affidabilità del
reddito materiale,
appunto, si
relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita
che solo
apparentemente
è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò
certamente
negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova « sostanza » che ci
è stata
donata, si
è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo
strapotere
è mostrata
soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell'antichità fino a
Francesco
sofferenti
nel corpo e nell'anima. Lì la nuova « sostanza » si è comprovata realmente come
«
sostanza »,
dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per
altri che
vivevano
nel buio e senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede
veramente «
questo loro
agire e vivere è di fatto una « prova » che le cose future, la promessa di
Cristo non è
ci indica
che cosa è e dove sta la vita.
Il significato del Logos
in Ratzinger; le parole e le azioni che le parole indicano!
9. Per comprendere più nel profondo
questa riflessione sulle due specie di sostanze – hypostasis e
hyparchonta
– e sui due modi di vita espressi con esse,
dobbiamo riflettere ancora brevemente su
due parole
attinenti l'argomento, che si trovano nel decimo capitolo della Lettera agli
Ebrei. Si
tratta
delle parole hypomone (10,36) e hypostole (10,39). Hypomone si
traduce normalmente con «
pazienza »
– perseveranza, costanza. Questo saper aspettare sopportando pazientemente le
prove è
necessario
al credente per poter « ottenere le cose promesse » (cfr 10,36). Nella
religiosità
dell'antico
giudaismo questa parola veniva usata espressamente per l'attesa di Dio
caratteristica di
Israele:
per questo perseverare nella fedeltà a Dio, sulla base della certezza
dell'Alleanza, in un
mondo che
contraddice Dio. Così la parola indica una speranza vissuta, una vita basata
sulla
certezza
della speranza. Nel Nuovo Testamento questa attesa di Dio, questo stare dalla
parte di Dio
assume un
nuovo significato: in Cristo Dio si è mostrato. Ci ha ormai comunicato la «
sostanza »
suo Corpo,
in vista della sua venuta definitiva. Con hypostole invece è espresso il
sottrarsi di chi
non osa
dire apertamente e con franchezza la verità forse pericolosa. Questo
nascondersi davanti
agli uomini
per spirito di timore nei loro confronti conduce alla « perdizione » (Eb 10,39).
« Dio
non ci ha
dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza » – così
invece la
Seconda
Lettera a Timoteo (1,7) caratterizza con una
bella espressione l'atteggiamento di fondo del
10. Abbiamo
finora parlato della fede e della speranza nel Nuovo Testamento e agli inizi
del
cristianesimo;
è stato però anche sempre evidente che non discorriamo solo del passato;
l'intera
Tuttavia
dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi
oggi una
speranza
che trasforma e sorregge la nostra vita? È essa per noi « performativa » – un
messaggio
che plasma
in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto « informazione » che, nel
frattempo,
abbiamo
accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca
di una
risposta
vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo
esprimeva
l'accoglienza
del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il sacerdote
chiedeva
innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava
poi con la
domanda: «
Che cosa chiedi alla Chiesa? » Risposta: « La fede ». « E che cosa ti dona la
fede? » «
socializzazione
entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si
e dei suoi
sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza.
Ma allora
sorge la
domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte
persone
rifiutano
la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa
desiderabile. Non
vogliono
affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra,
per questo
scopo,
piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più
una condanna
che un
dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere
sempre, senza
un termine
– questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È
precisamente
questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso
funebre per
natura;
infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio [...]
A causa della
aveva
perduto. L'immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina
la grazia ».6
Già prima
Ambrogio aveva detto: « Non dev'essere pianta la morte, perché è causa di
salvezza... ».7
Il cristianesimo come
l’eroina per le persone; anestetizzare l’uomo separandolo dal mondo!
11. Qualunque cosa sant'Ambrogio
intendesse dire precisamente con queste parole – è vero che
una
condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio.
Ovviamente
nostra
stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non
vuole che
moriamo.
Dall'altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere
illimitatamente e
anche la
terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo
veramente?
Questo
paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che
cosa è, in
realtà, la
« vita »? E che cosa significa veramente « eternità »? Ci sono dei momenti in
cui
percepiamo
all'improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la « vita » vera – così essa
dovrebbe
essere. A
confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo « vita », in verità non lo è.
Agostino,
nella sua
ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante
e madre di
tre
consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – « la vita beata
», la vita che è
semplicemente
vita, semplicemente « felicità ». Non c'è, in fin dei conti, altro che
chiediamo nella
preghiera.
Verso nient'altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi
Agostino dice
anche:
guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa
vorremmo
propriamente.
Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo
di
toccarla
non la raggiungiamo veramente. « Non sappiamo che cosa sia conveniente
domandare »,
egli
confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo
che non è questo.
Tuttavia,
nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. « C'è dunque in noi
una, per così
dire, dotta
ignoranza » (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa
vorremmo
veramente;
non conosciamo questa « vera vita »; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un
qualcosa
che noi non
conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti.8
12. Penso che Agostino descriva lì in
modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale
dell'uomo,
la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze.
Desideriamo
in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure
dalla
morte; ma
allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo
cessare
di
protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo
sperimentare o
realizzare
non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci
spinge e il
suo essere
ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli
slanci
dare un
nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola
insufficiente che
spesso allo
stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la
desideriamo,
della quale
siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un
continuo
susseguirsi
di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in
cui la
totalità ci
abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi
nell'oceano
dell'infinito
amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo
soltanto
cercare di
pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi
nella
vastità
dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo
esprime Gesù nel
Vangelo di
Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi
potrà togliere
la vostra
gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che
cosa mira
la speranza
cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.9
Il cristiano, dal
delirio di onnipotenza individuale, all’eversione sociale!
La speranza cristiana è
individualistica?
13. Nel
corso della loro storia, i cristiani hanno cercato di tradurre questo sapere
che non sa in
figure
rappresentabili, sviluppando immagini del « cielo » che restano sempre lontane
da ciò che,
appunto, conosciamo
solo negativamente, mediante una non-conoscenza. Tutti questi tentativi di
raffigurazione
della speranza hanno dato a molti, nel corso dei secoli, lo slancio di vivere
in base
di coloro
che vivono nella speranza e del loro essere in cammino, una storia che da Abele
giunge
fino
all'epoca sua. Di questo tipo di speranza si è accesa nel tempo moderno una
critica sempre più
dura: si
tratterebbe di puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua
miseria e si
opera
fondamentale « Catholicisme. Aspects sociaux du dogme », ha raccolto
alcune voci
trovato la
mia gioia. E ciò è una cosa terribilmente diversa ... La gioia di Gesù può
essere
individuale.
Può appartenere ad una sola persona, ed essa è salva. È nella pace..., per ora
e per
Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano ».10
14. Rispetto a ciò, de Lubac, sulla
base della teologia dei Padri in tutta la sua vastità, ha potuto
mostrare
che la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria. La
stessa Lettera
agli Ebrei parla di una « città » (cfr 11,10.16; 12,22; 13,14) e
quindi di una salvezza comunitaria.
Coerentemente,
il peccato viene compreso dai Padri come distruzione dell'unità del genere
umano,
come
frazionamento e divisione. Babele, il luogo della confusione delle lingue e
della separazione,
come il
ristabilimento dell'unità, in cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un'unione
che si delinea
nella
comunità mondiale dei credenti. Non è necessario che ci occupiamo qui di tutti i
testi, in cui
appare il
carattere comunitario della speranza. Rimaniamo con la Lettera a Proba in
cui Agostino
cui parte è
semplicemente l'espressione « vita beata [felice] ». Poi cita il Salmo 144
[143],15: «
Beato il
popolo il cui Dio è il Signore ». E continua: « Per poter appartenere a questo
popolo e
una
coscienza buona e da una fede sincera” (1 Tim 1,5) ».11 Questa vita
vera, verso la quale sempre
cerchiamo
di protenderci, è legata all'essere nell'unione esistenziale con un « popolo »
e può
realizzarsi
per ogni singolo solo all'interno di questo « noi ». Essa presuppone, appunto,
l'esodo
dalla
prigionia del proprio « io », perché solo nell'apertura di questo soggetto
universale si apre
anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull'amore stesso – su Dio.
del mondo
presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo –
in forme
molto
diverse, secondo il contesto storico e le possibilità da esso offerte o
escluse. Al tempo di
Agostino,
quando l'irruzione dei nuovi popoli minacciava la coesione del mondo, nella
quale era
data una
certa garanzia di diritto e di vita in una comunità giuridica, si trattava di
fortificare i
fondamenti
veramente portanti di questa comunità di vita e di pace, per poter sopravvivere
nel
mutamento
del mondo. Cerchiamo di gettare, piuttosto a caso, uno sguardo su un momento
del
medioevo
sotto certi aspetti emblematico. Nella coscienza comune, i monasteri apparivano
come i
luoghi
della fuga dal mondo (« contemptus mundi ») e del sottrarsi alla
responsabilità per il mondo
nella
ricerca della salvezza privata. Bernardo di Chiaravalle, che con il suo Ordine
riformato portò
una
moltitudine di giovani nei monasteri, aveva su questo una visione ben diversa.
Secondo lui, i
monaci
hanno un compito per tutta la Chiesa e di conseguenza anche per il mondo. Con
molte
immagini
egli illustra la responsabilità dei monaci per l'intero organismo della Chiesa,
anzi, per
l'umanità;
a loro egli applica la parola dello Pseudo-Rufino: « Il genere umano vive
grazie a pochi;
se non ci
fossero quelli, il mondo perirebbe... ».12 I contemplativi – contemplantes –
devono
ereditato
dal giudaismo, era emersa già nelle regole monastiche di Agostino e di
Benedetto.
Bernardo
riprende nuovamente questo concetto. I giovani nobili che affluivano ai suoi monasteri
dovevano
piegarsi al lavoro manuale. Per la verità, Bernardo dice esplicitamente che
neppure il
monastero
può ripristinare il Paradiso; sostiene però che esso deve, quasi luogo di dissodamento
pratico e
spirituale, preparare il nuovo Paradiso. Un appezzamento selvatico di bosco
vien reso
corpo e per
l'anima.13 Non ci è dato forse di costatare nuovamente, proprio di fronte alla
storia
attuale,
che nessuna positiva strutturazione del mondo può riuscire là dove le anime
La trasformazione della
fede-speranza cristiana nel tempo moderno
16. Come ha
potuto svilupparsi l'idea che il messaggio di Gesù sia strettamente
individualistico e
miri solo
al singolo? Come si è arrivati a interpretare la « salvezza dell'anima » come
fuga davanti
alla
responsabilità per l'insieme, e a considerare di conseguenza il programma del
cristianesimo
all'interrogativo
dobbiamo gettare uno sguardo sulle componenti fondamentali del tempo moderno.
Esse
appaiono con particolare chiarezza in Francesco Bacone. Che un'epoca nuova sia
sorta – grazie
alla
scoperta dell'America e alle nuove conquiste tecniche che hanno consentito
questo sviluppo – è
cosa
indiscutibile. Su che cosa, però, si basa questa svolta epocale? È la nuova
correlazione di
esperimento
e metodo che mette l'uomo in grado di arrivare ad un'interpretazione della
natura
cursus
artis super naturam).14 La novità – secondo la
visione di Bacone – sta in una nuova
correlazione
tra scienza e prassi. Ciò viene poi applicato anche teologicamente: questa
nuova
correlazione
tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla creazione, dato
all'uomo da
Dio e perso nel peccato originale, verrebbe ristabilito.15
17. Chi legge queste affermazioni e
vi riflette con attenzione, vi riconosce un passaggio
aveva perso
si attendeva dalla fede in Gesù Cristo, e in questo si vedeva la « redenzione
». Ora
questa «
redenzione », la restaurazione del « paradiso » perduto, non si attende più
dalla fede, ma
dal
collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. Non è che la fede, con ciò,
venga
private ed
ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il
mondo.
Questa visione
programmatica ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure
la speranza,
in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede nel progresso. Per
Bacone,
sinergia di
scienza e prassi seguiranno scoperte totalmente nuove, emergerà un mondo
totalmente
per gli
avanzamenti visibili delle potenzialità umane rimane una costante conferma
della fede nel
Il significato di
libertà e il significato di ragione!
18. Al contempo, due categorie
entrano sempre più al centro dell'idea di progresso: ragione e
le
dipendenze – è progresso verso la libertà perfetta. Anche la libertà viene
vista solo come
promessa,
nella quale l'uomo si realizza verso la sua pienezza. In ambedue i concetti –
libertà e
ragione – è
presente un aspetto politico. Il regno della ragione, infatti, è atteso come la
nuova
condizione
dell'umanità diventata totalmente libera. Le condizioni politiche di un tale
regno della
ragione e
della libertà, tuttavia, in un primo momento appaiono poco definite. Ragione e
libertà
sembrano
garantire da sé, in virtù della loro intrinseca bontà, una nuova comunità umana
perfetta.
In ambedue
i concetti-chiave di « ragione » e « libertà », però, il pensiero tacitamente
va sempre
statali di
allora. Ambedue i concetti portano quindi in sé un potenziale rivoluzionario di
un'enorme
--- Il diciannovesimo paragrafo dell’enciclica Spe Salvi ha
un doppio commento.
--- cliccando sul testo del paragrafo arrivate alla pagina
del commento al paragrafo, cliccando su Immanuel Kant o sull’appunto sotto il paragrafo
arrivate alla pagina che commenta l’uso che di Kant ne fa Ratzinger e la
correzione delle citazioni in Kant.
19. Dobbiamo brevemente gettare uno
sguardo sulle due tappe essenziali della concretizzazione
politica di
questa speranza, perché sono di grande importanza per il cammino della speranza
reale.
L'Europa dell'Illuminismo, in un primo momento, ha guardato affascinata a
questi
avvenimenti,
ma di fronte ai loro sviluppi ha poi dovuto riflettere in modo nuovo su ragione
e
di Immanuel
Kant, in cui egli riflette sugli eventi. Nel 1792 scrive l'opera: « Der Sieg
des guten
Prinzips
über das böse und die Gründung eines Reichs Gottes auf Erden » (La vittoria del principio
buono su
quello cattivo e la costituzione di un regno di Dio sulla terra). In essa
egli dice: « Il
l'avvicinamento
del regno di Dio ».17 Ci dice anche che le rivoluzioni possono accelerare i
tempi di
parlato ha
qui ricevuto una nuova definizione e assunto anche una nuova presenza; esiste,
per così
dire, una
nuova « attesa immediata »: il « regno di Dio » arriva là dove la « fede
ecclesiastica »
1795,
nello scritto « Das Ende aller Dinge » (La fine di tutte le cose) appare
un'immagine mutata.
verifichi
anche una contro natura, perversa. Scrive al riguardo: « Se il cristianesimo un
giorno
dovesse
arrivare a non essere più degno di amore [...] allora il pensiero dominante
degli uomini
dovrebbe
diventare quello di un rifiuto e di un'opposizione contro di esso; e
l'anticristo [...]
inaugurerebbe
il suo, pur breve, regime (fondato presumibilmente sulla paura e sull'egoismo).
In
di fatto
non sarebbe stato aiutato dal destino a diventarlo, potrebbe verificarsi, sotto
l'aspetto
morale, la fine (perversa) di tutte le cose ».18
Marx, Darwin, Feuerbach,
Proudhon e il regno di dio in terra!
20. L'Ottocento non venne meno alla
sua fede nel progresso come nuova forma della speranza
umana e
continuò a considerare ragione e libertà come le stelle-guida da seguire sul
cammino della
speranza.
L'avanzare sempre più veloce dello sviluppo tecnico e l'industrializzazione con
esso
Friedrich
Engels nel 1845 illustrò in modo sconvolgente. Per il lettore doveva essere
chiaro: questo
non può
continuare; è necessario un cambiamento. Ma il cambiamento avrebbe scosso e
rovesciato
una nuova
rivoluzione, quella proletaria: il progresso non poteva semplicemente avanzare
in modo
lineare a
piccoli passi. Ci voleva il salto rivoluzionario. Karl Marx raccolse questo
richiamo del
momento e,
con vigore di linguaggio e di pensiero, cercò di avviare questo nuovo passo
grande e,
come
riteneva, definitivo della storia verso la salvezza – verso quello che Kant
aveva qualificato
come il «
regno di Dio ». Essendosi dileguata la verità dell'aldilà, si sarebbe ormai
trattato di
teologia
nella critica della politica. Il progresso verso il meglio, verso il mondo
definitivamente
buono, non
viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica
pensata
verso la
rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose. Con puntuale precisione,
anche se in
modo
unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed
illustrato con
grande
capacità analitica le vie verso la rivoluzione – non solo teoricamente: con il
partito
comunista,
nato dal manifesto comunista del 1848, l'ha anche concretamente avviata. La sua
promessa,
grazie all'acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per
il
cambiamento
radicale, ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo. La rivoluzione
poi si è
anche
verificata nel modo più radicale in Russia.
21. Ma con la sua vittoria si è
reso evidente anche l'errore fondamentale di Marx. Egli ha indicato
con
esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose
avrebbero dovuto
procedere
dopo. Egli supponeva semplicemente che con l'espropriazione della classe
dominante,
con la
caduta del potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione si
sarebbe
realizzata
la Nuova Gerusalemme. Allora, infatti, sarebbero state annullate tutte le
contraddizioni,
l'uomo e il
mondo avrebbero visto finalmente chiaro in se stessi. Allora tutto avrebbe
potuto
del maestro
non si trovava nessun'indicazione sul come procedere. Sì, egli aveva parlato
della fase
intermedia
della dittatura del proletariato come di una necessità che, però, in un secondo
tempo da
sé si
sarebbe dimostrata caduca. Questa « fase intermedia » la conosciamo benissimo e
sappiamo
anche come
si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando
dietro di sé
una
distruzione desolante. Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti
necessari per il
nuovo mondo
– di questi, infatti, non doveva più esserci bisogno. Che egli di ciò non dica
nulla, è
logica
conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta più in profondità. Egli
ha dimenticato
che l'uomo
rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha
dimenticato
che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta
messa a
non è solo
il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente
dall'esterno
creando condizioni economiche favorevoli.
22. Così ci troviamo nuovamente
davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria
un'autocritica
dell'età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della
speranza.
In un tale
dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro
esperienze,
devono
imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa
abbiano da
offrire al
mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nell'autocritica
dell'età
moderna
confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di
nuovo
alcuni
accenni. Innanzitutto c'è da chiedersi: che cosa significa veramente «
progresso »; che cosa
promette e
che cosa non promette? Già nel XIX secolo esisteva una critica alla fede nel
progresso.
Nel XX
secolo, Theodor W. Adorno ha formulato la problematicità della fede nel
progresso in
modo
drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla
megabomba. Ora,
questo è,
di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti:
si rende
evidente
l'ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il
bene, ma apre
anche
possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti
siamo diventati
testimoni
di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di
fatto, un
progresso
terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella
formazione
etica
dell'uomo, nella crescita dell'uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16),
allora esso non è un
progresso, ma una minaccia per l'uomo e per il mondo.
23. Per quanto riguarda i due
grandi temi « ragione » e « libertà », qui possono essere solo
accennate
quelle domande che sono con essi collegate. Sì, la ragione è il grande dono di
Dio
all'uomo, e
la vittoria della ragione sull'irrazionalità è anche uno scopo della fede
cristiana. Ma
quand'è che
la ragione domina veramente? Quando si è staccata da Dio? Quando è diventata
cieca
urgentemente
essere integrata mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della
fede, al
discernimento
tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana. Diventa umana
solo
la libertà
umana richiede sempre un concorso di varie libertà. Questo concorso, tuttavia,
non può
riuscire,
se non è determinato da un comune intrinseco criterio di misura, che è
fondamento e meta
della
nostra libertà. Diciamolo ora in modo molto semplice: l'uomo ha bisogno di Dio,
altrimenti
resta privo
di speranza. Visti gli sviluppi dell'età moderna, l'affermazione di san Paolo
citata
un « regno
di Dio » realizzato senza Dio – un regno quindi dell'uomo solo – si risolve
inevitabilmente
nella « fine perversa » di tutte le cose descritta da Kant: l'abbiamo visto e
lo
vediamo
sempre di nuovo. Ma non vi è neppure dubbio che Dio entra veramente nelle cose
umane
solo se non
è soltanto da noi pensato, ma se Egli stesso ci viene incontro e ci parla. Per
questo la
ragione ha
bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede
hanno
bisogno
l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione.
La vera fisionomia della speranza
cristiana
24.
Chiediamoci ora di nuovo: che cosa possiamo sperare? E che cosa non possiamo
sperare?
Innanzitutto
dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo
materiale.
Qui, nella
conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle
invenzioni
sempre più
avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza
sempre
più grande
della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della decisione
morale non
c'è una
simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell'uomo
è sempre
nuova e
deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente
già prese
per noi da
altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che
nelle
decisioni
fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le
nuove
generazioni
possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute,
come
possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche
rifiutarlo, perché
presente
come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla
libertà e come
possibilità
per essa. Ma ciò significa che:
a) il retto stato delle cose umane, il benessere
morale del mondo non può mai essere garantito
semplicemente
mediante strutture, per quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo
importanti,
ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la
libertà
dell'uomo.
Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive
delle
convinzioni
che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione
all'ordinamento
comunitario.
La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma
deve
essere
sempre di nuovo riconquistata comunitariamente.
b) Poiché l'uomo rimane sempre libero e poiché la sua
libertà è sempre anche fragile, non esisterà
mai in questo
mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo
migliore
che
durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la
libertà umana. La
libertà
deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene
non esiste
mai
semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo
irrevocabile una
determinata
– buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell'uomo, e per
questo
motivo non
sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone.
25. Conseguenza di quanto detto è
che la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le
cose umane
è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente concluso. Ogni
generazione,
tuttavia, deve anche recare il proprio contributo per stabilire convincenti
ordinamenti
di libertà
e di bene, che aiutino la generazione successiva come orientamento per l'uso
retto della
parole: le
buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L'uomo non può mai essere
redento
semplicemente
dall'esterno. Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero
dell'età
moderna a
lui ispirata, nel ritenere che l'uomo sarebbe stato redento mediante la
scienza,
scienza può
contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità. Essa però può
anche
distruggere
l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori
di essa.
D'altra
parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai
successi della
scienza
nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato
soltanto
sull'individuo
e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l'orizzonte della sua speranza e non
ha
neppure
riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito – anche se resta
grande ciò che
ha continuato a fare nella formazione dell'uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti.
26. Non è la scienza che redime
l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore. Ciò vale già
nell'ambito
puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande
amore,
quello è un
momento di « redenzione » che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto
egli si
renderà
anche conto che l'amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della
sua vita. È un
amore che
resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L'essere umano ha bisogno
dell'amore
incondizionato.
Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: « Né morte né vita, né angeli ne
principati,
né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun'altra
creatura
questo
amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l'uomo
è « redento »,
qualunque cosa
gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù
Cristo ci
ha « redenti ». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che
non
costituisce
una lontana « causa prima » del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è
fatto uomo e
di Lui
ciascuno può dire: « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha
dato se stesso
27. In questo senso è vero che chi
non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo
è senza
speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12).
La vera, grande
amati e ci
ama tuttora « sino alla fine », « fino al pieno compimento » (cfr Gv 13,1
e 19, 30). Chi
viene
toccato dall'amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe « vita ».
Comincia a
fede
aspetto la « vita eterna » – la vita vera che, interamente e senza minacce, in
tutta la sua
pienezza è semplicemente
vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita
e l'abbiamo
in pienezza, in abbondanza (cfr Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa
significhi «
vita »: «
Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai
mandato, Gesù
relazione
con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo
nella vita.
28. Ma ora sorge la domanda: in
questo modo non siamo forse ricascati nuovamente
nell'individualismo
della salvezza? Nella speranza solo per me, che poi, appunto, non è una
la
comunione con Gesù – da soli e con le sole nostre possibilità non ci arriviamo.
La relazione con
di essere.
Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa
possibile esserci
Chiesa, san
Massimo il Confessore († 662), il quale dapprima esorta a non anteporre nulla
alla
conoscenza
ed all'amore di Dio, ma poi arriva subito ad applicazioni molto pratiche: « Chi
ama Dio
non può
riservare il denaro per sé. Lo distribuisce in modo ‘divino' [...] nello stesso
modo secondo
la misura
della giustizia ».19 Dall'amore verso Dio consegue la partecipazione alla
giustizia e alla
bontà di
Dio verso gli altri; amare Dio richiede la libertà interiore di fronte ad ogni
possesso e a
tutte le
cose materiali: l'amore di Dio si rivela nella responsabilità per l'altro.20 La
stessa
connessione
tra amore di Dio e responsabilità per gli uomini possiamo osservare in modo
toccante
nella vita
di sant'Agostino. Dopo la sua conversione alla fede cristiana egli, insieme con
alcuni
grande
filosofia greca, scegliendo in questo modo « la parte migliore » (cfr Lc 10,42).
Ma le cose
andarono
diversamente. Mentre partecipava alla Messa domenicale nella città portuale di
Ippona, fu
sacerdotale
in quella città. Guardando retrospettivamente a quell'ora egli scrive nelle sue
Cristo è
morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per
colui che è
morto per
tutti » (cfr 2 Cor 5,15) ».21 Cristo è morto per tutti. Vivere per Lui
significa lasciarsi
coinvolgere
nel suo « essere per ».
29. Per Agostino ciò significò una
vita totalmente nuova. Egli una volta descrisse così la sua
moderare
gli ambiziosi, incoraggiare gli sfiduciati, pacificare i contendenti, aiutare i
bisognosi,
È il
Vangelo che mi spaventa » 23 – quello spavento salutare che ci impedisce di
vivere per noi
stessi e
che ci spinge a trasmettere la nostra comune speranza. Di fatto, proprio questa
era
l'intenzione
di Agostino: nella situazione difficile dell'impero romano, che minacciava
anche
capace di
partecipare decisamente e con tutte le forze all'edificazione della città.
Nello stesso
», egli
dice: Cristo « intercede per noi, altrimenti dispererei. Sono molte e pesanti
le debolezze,
molte e
pesanti, ma più abbondante è la tua medicina. Avremmo potuto credere che la tua
Parola
fosse
lontana dal contatto dell'uomo e disperare di noi, se questa Parola non si
fosse fatta carne e
non avesse abitato
in mezzo a noi ».24 In virtù della sua speranza, Agostino si è prodigato per la
modo semplice per la gente semplice.
30. Riassumiamo ciò che finora è
emerso nello sviluppo delle nostre riflessioni. L'uomo ha, nel
succedersi
dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi
periodi della
sua vita. A
volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non
abbia
bisogno di
altre speranze. Nella gioventù può essere la speranza del grande e appagante
amore; la
resto della
vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò
non era,
evidente
che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò
che egli
possa mai
raggiungere. In questo senso il tempo moderno ha sviluppato la speranza
dell'instaurazione
di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e ad una politica
scientificamente
fondata, sembrava esser diventata realizzabile. Così la speranza biblica del
regno
di Dio è
stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell'uomo, dalla speranza di un
mondo migliore
che sarebbe
il vero « regno di Dio ». Questa sembrava finalmente la speranza grande e
realistica, di
cui l'uomo ha
bisogno. Essa era in grado di mobilitare – per un certo tempo – tutte le
energie
dell'uomo;
il grande obiettivo sembrava meritevole di ogni impegno. Ma nel corso del tempo
apparve
chiaro che questa speranza fugge sempre più lontano. Innanzitutto ci si rese
conto che
questa era
forse una speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una speranza per me. E
benché
gli altri –
resta vero che una speranza che non riguardi me in persona non è neppure una
vera
cose umane
dipende in ogni generazione nuovamente dalla libera decisione degli uomini che
ad
mondo, in
fin dei conti, non sarebbe buono, perché un mondo senza libertà non è per nulla
un
mondo
buono. Così, pur essendo necessario un continuo impegno per il miglioramento
del mondo,
il mondo
migliore di domani non può essere il contenuto proprio e sufficiente della
nostra speranza.
E sempre a
questo proposito si pone la domanda: Quando è « migliore » il mondo? Che cosa
lo
rende
buono? Secondo quale criterio si può valutare il suo essere buono? E per quali
vie si può
31. Ancora: noi abbiamo bisogno
delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno,
ci
mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il
resto, esse non
bastano.
Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può
proporci e
donarci ciò
che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l'essere gratificato di un dono
fa parte
della
speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel
Dio che possiede
un volto
umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo
insieme. Il suo
regno non è
un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è
presente là
dove Egli è
amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità
di
perseverare
con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza,
in un
attenzione ad alcuni « luoghi » di pratico apprendimento ed esercizio della speranza.
« Luoghi » di apprendimento e di
esercizio della speranza
I. La
preghiera come scuola della speranza
32. Un
primo essenziale luogo di apprendimento della speranza è la preghiera. Se non
mi ascolta
più
nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più
nessuno invocare, a
Dio posso
sempre parlare. Se non c'è più nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di
una
necessità o
di un'attesa che supera l'umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi.25 Se
sono
di cui nove
in isolamento, l'indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un
prezioso
libretto: Preghiere
di speranza. Durante tredici anni di carcere, in una situazione di
disperazione
apparentemente
totale, l'ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente
forza di
speranza,
che dopo il suo rilascio gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il
mondo un
testimone
della speranza – di quella grande speranza che anche nelle notti della
solitudine non
Preghiera e sottomissione. Nella preghiera l'uomo si umilia al dio
padrone. Con la preghiera l'uomo si chiude al futuro. Con la preghiera il
cristiano umilia la società civile.
33. In modo molto bello Agostino ha
illustrato l'intima relazione tra preghiera e speranza in una
omelia
sulla Prima Lettera di Giovanni. Egli definisce la preghiera come un
esercizio del desiderio.
L'uomo è
stato creato per una realtà grande – per Dio stesso, per essere riempito da
Lui. Ma il suo
suo dono],
Dio allarga il nostro desiderio; mediante il desiderio allarga l'animo e
dilatandolo lo
rende più
capace [di accogliere Lui stesso] ». Agostino rimanda a san Paolo che dice di
sé di vivere
proteso
verso le cose che devono venire (cfr Fil 3,13). Poi usa un'immagine
molto bella per
descrivere
questo processo di allargamento e di preparazione del cuore umano. « Supponi
che Dio ti
aceto, dove
metterai il miele? » Il vaso, cioè il cuore, deve prima essere allargato e poi
pulito:
liberato
dall'aceto e dal suo sapore. Ciò richiede lavoro, costa dolore, ma solo così si
realizza
l'adattamento
a ciò a cui siamo destinati.26 Anche se Agostino parla direttamente solo della
dal sapore
dell'aceto, non diventa solo libero per Dio, ma appunto si apre anche agli
altri. Solo
diventando
figli di Dio, infatti, possiamo stare con il nostro Padre comune. Pregare non
significa
processo di
purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci
per gli
uomini.
Nella preghiera l'uomo deve imparare che cosa egli possa veramente chiedere a
Dio – che
cosa sia degno
di Dio. Deve imparare che non può pregare contro l'altro. Deve imparare che non
può
chiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento – la piccola
speranza sbagliata
menzogne
segrete con cui inganna se stesso: Dio le scruta, e il confronto con Dio
costringe l'uomo a
riconoscerle
pure lui. « Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalla colpe che non vedo
»,
prega il
Salmista (19[18],13). Il non riconoscimento della colpa, l'illusione di
innocenza non mi
come tale
in me, è colpa mia. Se non c'è Dio, devo forse rifugiarmi in tali menzogne,
perché non c'è
nessuno che
possa perdonarmi, nessuno che sia la misura vera. L'incontro invece con Dio
risveglia
la mia
coscienza, perché essa non mi fornisca più un'autogiustificazione, non sia più
un riflesso di
me stesso e
dei contemporanei che mi condizionano, ma diventi capacità di ascolto del Bene
stesso.
Imporre la preghiera. la preghiera
come superstizione. La preghiera giustifica il fallimento del cristiano nella
distruzione della società.
34. Affinché la preghiera sviluppi
questa forza purificatrice, essa deve, da una parte, essere molto
sempre di
nuovo guidata ed illuminata dalle grandi preghiere della Chiesa e dei santi,
dalla
preghiera
liturgica, nella quale il Signore ci insegna continuamente a pregare nel modo
giusto. Il
Cardinale
Nguyen Van Thuan, nel suo libro di Esercizi spirituali, ha raccontato come
nella sua vita
c'erano
stati lunghi periodi di incapacità di pregare e come egli si era aggrappato
alle parole di
deve sempre
esserci questo intreccio tra preghiera pubblica e preghiera personale. Così
possiamo
quali
diventiamo capaci di Dio e siamo resi idonei al servizio degli uomini. Così
diventiamo capaci
della
grande speranza e così diventiamo ministri della speranza per gli altri: la
speranza in senso
cose non
vadano verso « la fine perversa ». È speranza attiva proprio anche nel senso
che teniamo il
mondo aperto a Dio. Solo così essa rimane anche speranza veramente umana.
L'amore per il dio padrone di Ratzinger. L'odio nei confronti degli
uomini di Ratzinger. L'odio di ratzinger nei confronti della società civile. La
tristezza di Ratzinger per non poter bruciare le persone.
II. Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della
speranza
35. Ogni agire serio e retto
dell'uomo è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo
così di
portare avanti le nostre speranze, più piccole o più grandi: risolvere questo o
quell'altro
compito che
per l'ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro impegno dare
un
contributo
affinché il mondo diventi un po' più luminoso e umano e così si aprano anche le
porte
verso il futuro.
Ma l'impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per il futuro
dell'insieme
ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la luce di quella grande
speranza
storica. Se
non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile di volta in
volta e di
ad essere
priva di speranza. È importante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche
se per la
mia vita o
per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da
sperare.
un senso e
un'importanza, solo una tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio
di operare
e di
proseguire. Certo, non possiamo « costruire » il regno di Dio con le nostre
forze – ciò che
costruiamo
rimane sempre regno dell'uomo con tutti i limiti che sono propri della natura
umana. Il
è sempre
più di quello che meritiamo, così come l'essere amati non è mai una cosa «
meritata », ma
sempre un
dono. Tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del « plusvalore » del
cielo, rimane
anche
sempre vero che il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è
neppure
indifferente
per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il mondo
all'ingresso di
», hanno
contribuito alla salvezza del mondo (cfr 1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2).
Possiamo liberare la nostra
vita e il
mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il
presente e il
conserva un
senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo o sembriamo impotenti
di
nei momenti
buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire.
Per Ratzinger gli uomini sono dei peccatori. Il principio del piacere in
Epicuro. Peccato e senso di colpa. La malattia come punizione del dio padrone
per i peccati.
superare le
sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell'amore che
rientrano
nelle
esigenze fondamentali dell'esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana.
Nella lotta
sofferenze
psichiche sono piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. Sì, dobbiamo
fare di
tutto per
superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle
nostre
possibilità
– semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e
perché
nessuno di
noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo vediamo –
è
continuamente
fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che
personalmente
entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio
c'è e
che perciò
questo potere che « toglie il peccato del mondo » (Gv 1,29) è presente
nel mondo. Con la
fede nell'esistenza
di questo potere, è emersa nella storia la speranza della guarigione del mondo.
Ma si
tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento; speranza che ci dà il
coraggio di
metterci
dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza speranza, nella
consapevolezza
che, stando
allo svolgimento della storia così come appare all'esterno, il potere della
colpa rimane
anche nel futuro una presenza terribile.
La società come un campo di sterminio. Ratzinger vuole costruire
l'inferno in terra. Le sofferenze degli uomini per la gloria del dio padrone di
Ratzinger. Le torture di Ratzinger agli Esseri Umani.
ma non
possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni
sofferenza,
esiste
quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura sensazione della
mancanza di senso
e della
solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che
guarisce l'uomo,
con Cristo,
che ha sofferto con infinito amore. Vorrei in questo contesto citare alcune
frasi di una
lettera del
martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin († 1857), nelle quali diventa evidente
questa
trasformazione
della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. «
Io,
Paolo,
prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle
quali
quotidianamente
sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre
lodi
a Dio:
eterna è la sua misericordia (cfr Sal 136 [135]). Questo carcere è
davvero un'immagine
aggiungono
odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti
iniqui,
maledizioni
e infine angoscia e tristezza. Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace
ardente, mi è
di Dio sono
pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me [...] Come
sopportare
questo
orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro
cortigiani, che
bestemmiano
il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Sal 80 [79], 2)
e i Serafini?
Ecco, la
tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov'è la tua gloria? Vedendo tutto
questo
preferisco,
nell'ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza
del tuo
amore.
Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella
mia debolezza
cose,
esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e
beneditelo con me:
cosa sola.
Mentre infuria la tempesta, getto l'ancora fino al trono di Dio: speranza viva,
che è nel
mio
cuore... ».28 Questa è una lettera dall'« inferno ». Si palesa tutto l'orrore
di un campo di
concentramento,
in cui ai tormenti da parte dei tiranni s'aggiunge lo scatenamento del male
nelle
stesse
vittime che, in questo modo, diventano pure esse ulteriori strumenti della
crudeltà degli
tu sei, se scendo
negli inferi, eccoti [...] Se dico: “Almeno l'oscurità mi copra” [...] nemmeno
le
139 [138]
8-12; cfr anche Sal 23 [22],4). Cristo è disceso nell'« inferno » e così
è vicino a chi vi
trono di
Dio. Non viene scatenato il male nell'uomo, ma vince la luce: la sofferenza –
senza cessare
di essere
sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode.
38. La misura dell'umanità si
determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col
sofferenti
e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la
sofferenza venga
condivisa e
portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però,
non può
a trovare
nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un
cammino di
cosicché
essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa,
nella quale
consolazione,
lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine,
che allora
non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore
del bene,
della mia
comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna.
E infine,
anche il « sì
» all'amore è fonte di sofferenza, perché l'amore esige sempre espropriazioni
del mio
dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e, con ciò, annulla se stesso come tale.
La consolazione cristiana. L'empatia e la compassione alla base delle
specie nella e della Natura. Cervello e basi biologiche della solidarietà.
"O battesimo o sterminio" di Bernardo di Chiaravalle.
dell'amore
e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi
fondamentali di
umanità,
l'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso. Ma ancora una volta sorge
la
domanda: ne
siamo capaci? È l'altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi
una
persona che
soffre? È per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? È così
grande la
promessa
dell'amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella
storia
dell'umanità,
spetta proprio questo merito di aver suscitato nell'uomo in maniera nuova e a
una
profondità nuova
la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La
fede
cristiana
ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma
realtà di
grandissima
densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio – la Verità e l'Amore in persona – ha
voluto
soffrire
per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa
espressione:
Impassibilis
est Deus, sed non incompassibilis 29 – Dio non
può patire, ma può compatire. L'uomo
ha per Dio
un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire
con l'uomo,
in modo
molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della
Passione di
Gesù. Da lì
in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la
sopportazione;
sorge la
stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove
abbiamo sempre
bisogno
anche delle nostre piccole o grandi speranze – di una visita benevola, della
guarigione da
tipi di
speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi,
nelle quali devo
far mia la
decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al
possesso, la
certezza
della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche
per questo
abbiamo
bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da
loro
dimostrare
– giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole
alternative
della
quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente
la vita.
Diciamolo
ancora una volta: la capacità di soffrire per amore della verità è misura di
umanità.
Questa
capacità di soffrire, tuttavia, dipende dal genere e dalla misura della speranza
che portiamo
nel modo in
cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande
La vita eroica nell'Iliade e
nell'Odissea. La vita appassionata come eroismo religioso. Rassegnazione e
sofferenza come offerta al dio padrone.
40. Vorrei aggiungere ancora una
piccola annotazione non del tutto irrilevante per le vicende di
ogni
giorno. Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma
non molto
colpiscono
sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad
esse un
senso. In
questa devozione c'erano senz'altro cose esagerate e forse anche malsane, ma
bisogna
domandarsi
se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe
essere di
aiuto. Che
cosa vuol dire « offrire »? Queste persone erano convinte di poter inserire nel
grande
com-patire
di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche
modo del
tesoro di
compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le
piccole
seccature del
quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all'economia del bene,
dell'amore
tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe
ridiventare una prospettiva sensata anche per noi.
La magia come superstizione in Ratzinger. La superstizione in Girolamo
Menghi. L'abiura dei Valdesi in Bernardo Gui. Il dio padrone di Ratzinger.
III. Il Giudizio come luogo di
apprendimento e di esercizio della speranza
nascita eterna
dal Padre e dalla nascita temporale dalla Vergine Maria per giungere attraverso
la
i cristiani
fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita
presente, come
richiamo
alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. La
fede in Cristo
non ha mai
guardato solo indietro né mai solo verso l'alto, ma sempre anche in avanti
verso l'ora
della
giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in
avanti ha
cristiani,
che volevano rendere visibile la vastità storica e cosmica della fede in
Cristo, diventò
, sul lato
occidentale, invece, il Giudizio finale come immagine della responsabilità per
la nostra
vita, una
raffigurazione che guardava ed accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino
verso la
quotidianità.
Nello sviluppo dell'iconografia, però, è poi stato dato sempre più risalto
all'aspetto
minaccioso
e lugubre del Giudizio, che ovviamente affascinava gli artisti più dello
splendore della
speranza, che spesso veniva eccessivamente nascosto sotto la minaccia.
L'abiura del "vomito giudaico" in Bernardo Gui. La lotta anticlericale
contro la disperazione. Gioacchino da Fiore e la fine dei tempi come fine delle
sofferenze. La morale del dio padrone e la morale della società civile.
42. Nell'epoca moderna il pensiero
del Giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene
storia universale,
invece, è in gran parte dominata dal pensiero del progresso. Il contenuto
fondamentale
dell'attesa del Giudizio, tuttavia, non è semplicemente scomparso. Ora però
assume
una forma totalmente
diversa. L'ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue radici e la sua
finalità,
un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia
universale. Un
potere, non
può essere l'opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un
simile
mondo, non
sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che
bisogna
contestare
questo Dio. Poiché non c'è un Dio che crea giustizia, sembra che l'uomo stesso
ora sia
è
comprensibile, la pretesa che l'umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio
fa né è in grado di
fare, è
presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite
le più
grandi
crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso, ma è fondato nella falsità
intrinseca di
questa
pretesa. Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza
speranza.
Nessuno e
niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che
il cinismo
del potere
– sotto qualunque accattivante rivestimento ideologico si presenti – non
continui a
spadroneggiare
nel mondo. Così i grandi pensatori della scuola di Francoforte, Max Horkheimer
e
Theodor W.
Adorno, hanno criticato in ugual modo l'ateismo come il teismo. Horkheimer ha
radicalmente
escluso che possa essere trovato un qualsiasi surrogato immanente per Dio,
rifiutando
allo stesso
tempo però anche l'immagine del Dio buono e giusto. In una radicalizzazione
estrema
del divieto
veterotestamentario delle immagini, egli parla della « nostalgia del totalmente
Altro »
che rimane
inaccessibile – un grido del desiderio rivolto alla storia universale. Anche
Adorno si è
attenuto
decisamente a questa rinuncia ad ogni immagine che, appunto, esclude anche l'«
immagine
» del Dio
che ama. Ma egli ha anche sempre di nuovo sottolineato questa dialettica «
negativa » e
ha
affermato che giustizia, una vera giustizia, richiederebbe un mondo « in cui
non solo la
sofferenza
presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato
».30
Questo,
però, significherebbe – espresso in simboli positivi e quindi per lui
inadeguati – che
Necessità e funzione dell'immagine di dio nel cattolicesimo. L'Uno dei
Neoplatonici e il dio padrone dei cristiani. Disperazione come patologia
sociale e il "credo" cristiano. La truffa immorale della
"resurrezione della carne".
43. Dalla rigorosa rinuncia ad ogni
immagine, che fa parte del primo Comandamento di Dio (cfr Es
20,4), può
e deve imparare sempre di nuovo anche il cristiano. La verità della teologia
negativa è
stata posta
in risalto dal IV Concilio Lateranense il quale ha dichiarato esplicitamente
che, per
quanto
grande possa essere la somiglianza costatata tra il Creatore e la creatura,
sempre più grande
è tra di
loro la dissomiglianza.32 Per il credente, tuttavia, la rinuncia ad ogni
immagine non può
spingersi
fino al punto da doversi fermare, come vorrebbero Horkheimer e Adorno, nel « no
» ad
ambedue le
tesi, al teismo e all'ateismo. Dio stesso si è dato un' « immagine »: nel
Cristo che si è
fatto uomo.
In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio è portata
all'estremo.
abbandonato
da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è diventato
speranzacertezza:
Dio c'è, e
Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e
che,
tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della
carne.33 Esiste una
questo la fede
nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la
cui
questione
della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento
più forte, in
favore
della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento
che in questa
vita ci è
negato, dell'immortalità dell'amore che attendiamo, è certamente un motivo
importante per
credere che
l'uomo sia fatto per l'eternità; ma solo in collegamento con l'impossibilità
che
Il Giudizio Universale e la condizione di attesa. Gorgia, Platone e il
giudizio. Vendetta e giustizia, patrimoni biologici di specie. Le classi
sociali determinate dal dio padrone cristiano.
44. La protesta contro Dio in nome
della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo
L'immagine
del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma
un'immagine di
speranza;
per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non è forse
anche
un'immagine
di spavento? Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità.
Un'immagine,
quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra paura ha la
sua
speranza.
Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo
sguardo
sul Cristo
crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel
loro giusto
spugna che
cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre
lo stesso
suo romanzo
« I fratelli Karamazov ». I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non
siederanno
un testo di
Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio che in gran parte
rimane vero e
salutare
anche per il cristiano. Pur con immagini mitologiche, che però rendono con
evidenza
inequivocabile
la verità, egli dice che alla fine le anime staranno nude davanti al giudice.
Ora non
menzogna e
superbia, e niente è dritto, perché essa è cresciuta senza verità. Ed egli vede
come
l'anima, a
causa di arbitrio, esuberanza, spavalderia e sconsideratezza nell'agire, è
caricata di
vita pia e
sincera [...], se ne compiace e la manda senz'altro alle isole dei beati ».36
Gesù, nella
parabola
del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), ha presentato
a nostro
ammonimento
l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che
ha
sete
ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa
parabola non parla del
la sentenza
ultima manca ancora.
I cristiani e la gestione del
"dopo morte". Ratzinger si pensa come il dio padrone. La polemica fra
cristiani sul Purgatorio. Tommaso d'Aquino e l'inferno in terra.
45. Questa idea vetero-giudaica
della condizione intermedia include l'opinione che le anime non si
trovano
semplicemente in una sorta di custodia provvisoria, ma subiscono già una
punizione, come
dimostra la
parabola del ricco epulone, o invece godono già di forme provvisorie di
beatitudine. E
rendono
l'anima matura per la comunione con Dio. La Chiesa primitiva ha ripreso tali
concezioni,
dalle quali
poi, nella Chiesa occidentale, si è sviluppata man mano la dottrina del
purgatorio. Non
abbiamo
bisogno di prendere qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo;
vita ha
preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno
distrutto
diventato
menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse
l'amore. È
questa una
prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano
discernere in
parte
possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare
da Dio e di
conseguenza
sono totalmente aperte al prossimo – persone, delle quali la comunione con Dio
orienta già
fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento
ciò che
Che cos'è il male? Il significato di male secondo i cristiani e secondo
l'Anticristo.
Il dio padrone e il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso. La visione oltre la morte, il cristiano e l'uva acerba.
Nella gran parte
degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della
vita, però,
essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre
la
bassezza e
rimane presente nell'anima. Che cosa avviene di simili individui quando
compaiono
davanti al
Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno
forse di
colpo
irrilevanti? O che cosa d'altro accadrà? San Paolo, nella Prima Lettera ai
Corinzi, ci dà
un'idea del
differente impatto del giudizio di Dio sull'uomo a seconda delle sue
condizioni. Lo fa
con
immagini che vogliono in qualche modo esprimere l'invisibile, senza che noi
possiamo
trasformare
queste immagini in concetti – semplicemente perché non possiamo gettare lo
sguardo
nel mondo
al di là della morte né abbiamo alcuna esperienza di esso. Paolo dice
dell'esistenza
cristiana
innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo
fondamento resiste.
Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la
nostra
vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure
nella morte.
Poi Paolo
continua: « Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre
preziose,
legno,
fieno, paglia, l'opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel
giorno che si
sul
fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l'opera finirà
bruciata, sarà
caso,
diventa evidente che il salvamento degli uomini può avere forme diverse; che
alcune cose
fuoco » per
diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola
dell'eterno
La morte come terrore e la morte come felicità!
Perché i cristiani hanno paura della morte.
Il relativismo di Ratzinger applicato alla sua morte.
La scelta di Vincenza Santoro Galani; Marc Augé; Jean Delumeau.
il Giudice
e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo
sguardo si
veramente
noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia
secca, vuota
millanteria
e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del
nostro
essere si
rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore
ci risana
mediante
una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È,
tuttavia, un
essere
totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche
la
compenetrazione
di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra
sporcizia
non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso
la verità
momento del
Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il
male
« durata »
di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure
cronometriche
di questo
mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio
terreno
– è tempo
del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di
Cristo.39 Il
Giudizio di
Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto
grazia che
rende
irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della
risposta alla domanda
circa la
giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se
fosse pura
ha
collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia
viene stabilita con
fermezza:
tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12).
Ciononostante
la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro
al
Giudice che
conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1).
La Pietas di Roma Antica e la
violenza cristiana!
Purgatorio, indulgenze ed espiazione
nel cristianesimo.
L'ideologia del rimpianto come
controllo delle persone.
La superstizione di Ratzinger e la superstizione dei Maccabei.
48. Un motivo ancora deve essere
qui menzionato, perché è importante per la prassi della speranza
loro condizione
intermedia per mezzo della preghiera (cfr per esempio 2 Mac 12,38-45: I
secolo
Chiesa
orientale ed occidentale. L'Oriente non conosce una sofferenza purificatrice ed
espiatrice
condizione
intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, può essere dato « ristoro e
refrigerio »
affetto
oltre il confine della morte – questa è stata una convinzione fondamentale
della cristianità
di far
giungere ai propri cari già partiti per l'aldilà un segno di bontà, di
gratitudine o anche di
richiesta
di perdono? Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il « purgatorio » è
come può
allora intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina
all'altra? Quando
poniamo una
simile domanda, dovremmo renderci conto che nessun uomo è una monade chiusa in
se stessa.
Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici
interazioni
sono
concatenate una con l'altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo.
Nessuno viene
opero. E
viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene.
Così la mia
intercessione
per l'altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure
dopo la
una piccola
tappa della sua purificazione. E con ciò non c'è bisogno di convertire il tempo
terreno
nel tempo
di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno.
Non è mai
troppo
tardi per toccare il cuore dell'altro né è mai inutile. Così si chiarisce
ulteriormente un
elemento importante
del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre essenzialmente
anche
speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me.40 Da
cristiani non
dovremmo
mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci
anche: che
cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella
della
speranza?
Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale.
Afrodite, Stella del Mare, offesa dalla Maria cristiana!
Il cristianesimo è la prima religione omosessuale.
Criminalizzando l'omosessualità nella società alimenta di possesso le pulsioni represse consentendole solo per fini di dominio.
L'omosessualità cristiana riduce la donna a madre e serva.
Liberare ogni sessualità per fermare l'ideologia cristiana del possesso.
Maria, stella della speranza
Dio, come «
stella del mare »: Ave maris stella. La vita umana è un cammino. Verso
quale meta?
Come ne
troviamo la strada? La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso
oscuro ed in
vita sono
le persone cha hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza.
Certo, Gesù
Cristo è la
luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per
giungere
fino a Lui
abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola
dalla sua
luce ed
offrono così orientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe
più di Maria
essere per
noi stella di speranza – lei che con il suo « sì » aprì a Dio stesso la porta
del nostro
mondo; lei
che diventò la vivente Arca dell'Alleanza, in cui Dio si fece carne, divenne
uno di noi,
piantò la sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv 1,14)?
Il magnificat di Maria come negazione dell'uomo!
Celso e il figlio del dio.
Il magnificat e ilprimo stato cristiano: l'Armenia.
Il magnificat, la disperazione dei cristiani e la loro ribellione.
50. A lei perciò ci rivolgiamo:
Santa Maria, tu appartenevi a quelle anime umili e grandi in Israele
che, come
Simeone, aspettavano « il conforto d'Israele » (Lc 2,25) e attendevano,
come Anna, « la
redenzione
di Gerusalemme » (Lc 2,38). Tu vivevi in intimo contatto con le Sacre
Scritture di
Israele,
che parlavano della speranza – della promessa fatta ad Abramo ed alla sua
discendenza (cfr
Lc 1,55). Così comprendiamo il santo timore che ti
assalì, quando l'angelo del Signore entrò nella
mondo. Per
mezzo tuo, attraverso il tuo « sì », la speranza dei millenni doveva diventare
realtà,
entrare in
questo mondo e nella sua storia. Tu ti sei inchinata davanti alla grandezza di
questo
compito e
hai detto « sì »: « Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che
hai detto
la tua
parente Elisabetta, diventasti l'immagine della futura Chiesa che, nel suo
seno, porta la
speranza
del mondo attraverso i monti della storia. Ma accanto alla gioia che, nel tuo Magnificat,
con le
parole e col canto hai diffuso nei secoli, conoscevi pure le affermazioni
oscure dei profeti
sulla
sofferenza del servo di Dio in questo mondo. Sulla nascita nella stalla di
Betlemme brillò lo
splendore
degli angeli che portavano la buona novella ai pastori, ma al tempo stesso la
povertà di
Dio in
questo mondo fu fin troppo sperimentabile. Il vecchio Simeone ti parlò della
spada che
in questo
mondo. Quando poi cominciò l'attività pubblica di Gesù, dovesti farti da parte,
affinché
potesse
crescere la nuova famiglia, per la cui costituzione Egli era venuto e che
avrebbe dovuto
di Nazaret,
dovesti sperimentare la verità della parola sul « segno di contraddizione »
(cfr Lc
4,28ss).
Così hai visto il crescente potere dell'ostilità e del rifiuto che
progressivamente andava
affermandosi
intorno a Gesù fino all'ora della croce, in cui dovesti vedere il Salvatore del
mondo,
l'erede di
Davide, il Figlio di Dio morire come un fallito, esposto allo scherno, tra i
delinquenti.
Accogliesti
allora la parola: « Donna, ecco il tuo figlio! » (Gv 19,26). Dalla croce
ricevesti una
nuova
missione. A partire dalla croce diventasti madre in una maniera nuova: madre di
tutti coloro
che
vogliono credere nel tuo Figlio Gesù e seguirlo. La spada del dolore trafisse
il tuo cuore. Era
probabilmente,
nel tuo intimo avrai ascoltato nuovamente la parola dell'angelo, con cui aveva
risposto al
tuo timore nel momento dell'annunciazione: « Non temere, Maria! » (Lc 1,30).
Quante
del
Golgota, tu sentisti nuovamente questa parola. Ai suoi discepoli, prima
dell'ora del tradimento,
Egli aveva
detto: « Abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo » (Gv 16,33). « Non sia
turbato il vostro
cuore e non
abbia timore » (Gv 14,27). « Non temere, Maria! » Nell'ora di Nazaret
l'angelo ti aveva
detto
anche: « Il suo regno non avrà fine » (Lc 1,33). Era forse finito prima
di cominciare? No,
che anche
nel buio del Sabato Santo era certezza della speranza, sei andata incontro al
mattino di
destinati a
diventare famiglia di Gesù mediante la fede. Così tu fosti in mezzo alla
comunità dei
credenti,
che nei giorni dopo l'Ascensione pregavano unanimemente per il dono dello
Spirito Santo
uomini
avevano potuto immaginarlo. Questo « regno » iniziava in quell'ora e non
avrebbe avuto
mai fine.
Così tu rimani in mezzo ai discepoli come la loro Madre, come Madre della
speranza.
Santa
Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con
te. Indicaci la
via verso
il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!
Dato a
Roma, presso San Pietro, il 30 novembre, festa di Sant'Andrea Apostolo,
dell'anno 2007,
TORNA AI TESTI DI STREGONERIA PER IL FUTURO!
Claudio Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardiano dell'Anticristo
P.le Parmesan, 8
30175 Marghera - Venezia
tel. 041933185
e-mail: claudiosimeoni@libero.it
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